Quella di Chiara Dossi, salita agli onori delle cronache nei giorni scorsi, è una delle tante storie ingiuste di un sistema di welfare ancora primitivo su certi aspetti, ostaggio di pratiche burocratiche, processi standardizzati, lungaggini ingiustificate e del tutto estraneo a quella “persona” che si propone di tutelare nei suoi fondamenti costitutivi.
Ripercorriamo quello che è successo nelle scorse settimane. Chiara Dossi è una sociologa, dirigente di una cooperativa sociale fino a che, lo scorso febbraio il fratello medico le ha suggerito di sottoporsi ad alcuni esami, che hanno evidenziato la presenza di un linfoma. Se in età avanzata, una notizia del genere è in grado di sconvolgere la vita non solo del malato ma anche quella dei suoi famigliari, nel pieno della maturità, sotto i 40 anni, è davvero un tornado in grado di portare via tutte le aspettative, le ambizioni e gli obiettivi di una persona fino al giorno precedente nel pieno delle forze.
Eppure, Chiara non si è lasciata sopraffare e con grande coraggio si è sottoposta a cicli di chemio e radioterapia, con conseguenti effetti collaterali al pari di trombosi, infezioni, nausea e tutti i sintomi che i tanti malati di tumore conoscono fin troppo bene.
Nel pieno della sua battaglia, lo Stato, che dovrebbe essere amico di chi versa i contributi, lavora onestamente e si trova a combattere una lotta inattesa e durissima, che coinvolge l’intera sfera di vita della persona, ha finito però per rendere le cose ancora più difficili.
Una mattina, i medici dell’Inps si recano a casa di Chiara per la visita fiscale di rito. Lei, spossata e debilitata dalle cure, non riesce a raggiungere in tempo la porta di casa: gli accertatori se ne vanno e dopo pochi giorni inviano un invito di presentazione a Trento – capoluogo regionale – per un’ulteriore verifica, con rischio di multa e sospensione dello stato di malattia.
Indignata, Chiara sfoga la sua rabbia su Facebook e, in poche ore, la regione Trentino-Alto Adige adotta un protocollo per esentare chi è affetto da patologie particolarmente debilitanti dall’obbligo di vista fiscale.
Una vicenda ai limiti dell’incredibile, se non fossimo in Italia, verrebbe da dire, dove falsi invalidi e falsi ciechi riescono a intascarsi la pensione per decenni indisturbati, e ai malati gravi, agli infermi non solo si nega il basilare diritto all’assistenza, ma si finisce per aggiungere ulteriori problemi a chi ne ha già troppi e difficilmente risolvibili.
Quella di Chiara è solo una, infatti, delle tante storie che vedono un sistema di protezione che, sempre più spesso, si tramuta in un ostacolo al benessere della persona malata. Non è solo l’obbligo della visita fiscale per i malati gravi a destare scandalo, ma, in occasioni ancor più frequenti, i tempi di attesa del tutto slegati dalla realtà con cui questi controlli vengono svolti. A ben vedere, un’umiliazione ancora più grave sia per il malato che per la famiglia.
Cosa dire, infatti, dei malati di tumore che attendono una visita fiscale e nel frattempo, magari, muoiono? O, ancora, dell’assoluta urgenza di aiuto per chi è colpito da infarti o ictus e necessita dell’assistenza dei famigliari, i quali, però, devono attendere settimane se non mesi per potersi assentare dal lavoro e assistere il proprio famigliare?
La visita fiscale per chi ha un parente affetto da neoplasia oncologica (volgarmente, cancro) è di 40 giorni, ed è il margine più breve. Purtroppo, però, a volte diagnosi tardive o improvvisi peggioramenti rendono urgente il supporto dei famigliari, i quali devono comunque sottostare ai comodi dell’Inps prima di poter dedicare tempo al proprio caro in difficoltà.
Ancora, per infarti e ictus, eventi che colpiscono in modo del tutto imprevedibile, la visita fiscale avverrà entro i tre mesi: novanta giorni nei quali i parenti lavoratori non potranno usufruire di alcun diritto, né la legge 104 né l’accompagnamento per il familiare, proprio nelle fasi immediatamente successive che sono poi le più importanti nel difficile cammino della riabilitazione.
Ci sarebbe, poi, la galassia delle partite Iva, che come noto hanno molte meno protezioni dei lavoratori dipendenti e, spesso, sono costrette a lavorare pur in condizioni di salute precarie, o appoggiandosi all’evenienza su parenti o conoscenti, magari rischiando anche eventuali multe aggiuntive.
Insomma, il quadro è chiaro. E in tutto questo stupisce il silenzio assordante della politica che va avanti da anni, su tematiche di tale rilevanza, che riguardano non già una piccola fascia di popolazione, ma l’intera comunità.
La storia di Chiara è una delle tantissime che ogni giorni affollano il panorama di un sistema sempre più alla mercé dei furbi, e sempre meno vicino a chi ha davvero bisogno. L’auspicio è che il protocollo a suo nome, da Trento possa arrivare a Roma, per dare il via a una riforma radicale del sistema assistenziale quantomeno sulle patologie più complicate, affinché davvero lo Stato sia alleato – e non nemico – della battaglia più ardua che un individuo possa trovarsi ad affrontare.
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