Il fatto è presto riassumibile. Nel 2010 il primo dirigente del servizio Veterinario dell’ASL de L’Aquila e un dipendente di detto servizio, dietro richiesta di un soggetto che risultò non averne titolo, uccisero nove cuccioli di cane in L’Aquila.
I due vennero condannati sia in primo che in secondo grado (la Corte d’Appello del L’Aquila riconobbe la sussistenza anche della crudeltà dell’azione) e ricorsero in Cassazione.
Il primo dirigente affermò la necessità sanitaria e sociale del proprio operato considerato che la segnalazione dell’esistenza dei cuccioli, al fine di liberarsene, proveniva da una persona che asseriva di esserne il proprietario. Inoltre, a dire dell’imputato, non sussisteva la possibilità di collocamento dei cagnolini in canile e si sarebbero potuti creare problemi legati al randagismo.
Il secondo dipendente invocava la scriminante dell’adempimento del dovere (avendo egli agito su ordine del superiore gerarchico) prevista dall’ art. 51 c.p.. La difesa dell’imputato verteva sulla legittimità dell’ordine ricevuto o, comunque, sulla natura non manifestamente criminosa dell’ordine stesso.
Entrambi i motivi di ricorso sono stati respinti dalla Suprema Corte.
Circa la mancanza dello stato di necessità che, qualora esistente, esclude la configurabilità del delitto d’uccisione d’animali, i giudici di legittimità hanno, innanzitutto, ribadito quanto da essi pronunciato in precedenza (Cass. 44822/2007): la scriminante risulta sussistere nei casi in cui sia palese lo stato di necessità previsto dall’art. 54 cod. pen. nonché ogni altra situazione che induca all’uccisione o al maltrattamento dell’animale per evitare un pericolo imminente o per impedire l’aggravamento di un danno alla persona o ai beni ritenuto altrimenti inevitabile. L’istruttoria effettuata nei giudizi di merito, che aveva portato a due pronunce che la Suprema Corte ha ritenuto corrette anche dal punto di vista della motivazione, aveva evidenziato come i cuccioli fossero in buona salute, accuditi da volontari e sistemati all’interno di un terreno recintato. La soppressione, nel caso concreto, non risultava, quindi, inevitabile in quanto non sussistente una situazione di necessità intesa nel senso ampio sopra accennato. Circa l’errore sulla proprietà della cucciolata, continua la Corte, esso è irrilevante. Peraltro l’uccisione venne effettuata in aperta violazione degli articoli 13 e 14 della Legge Regionale dell’ Abruzzo n. 86 del 1999 non essendo i malcapitati animali né inselvatichiti né tali da porre in pericolo attuale l’ordine sanitario e sociale.
La normativa regionale appena citata esclude, secondo la Cassazione, anche l’esistenza dell’errore sulla legittimità dell’ordine ricevuto da parte del secondo ricorrente. Si tratta, in sostanza, dell’applicazione del principio giuridico della presunzione della conoscenza della legge regolante il proprio operare da parte di un professionista di un determinato settore.
In sintesi la decisione in esame ha individuato alcuni punti fermi che non potranno non avere applicazione futura per gli esercenti attività veterinaria. La norma penale riguardante l’uccisione di animali riguarda (come d’altronde dice la lettera della legge) chiunque, senza distinzioni tra normali cittadini e veterinari. Questi ultimi, in casi simili a quello giudicato, inoltre, sono responsabilizzati in modo ulteriore non avendo alcuna importanza che la richiesta d’abbattimento provenga da un soggetto che si dichiari proprietario dell’animale (o da parte di un superiore gerarchico all’interno di una struttura veterinaria) allorquando l’uccisione non presenti quelle ben legislativamente e giurisprudenzialmente precisate caratteristiche di necessità che, sola, costituisce causa di giustificazione. E la necessità deve essere esistente e attuale e non meramente ipotetica.
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