Rito abbreviato, risarcimento milionario, condono, buona condotta, patteggiamento in appello consentito semplicemente per qualche mese poi abolito ex novo, equipollenza tra attenuanti ed aggravanti: la legge è stata rispettata con precisione tristemente (e singolarmente) millimetrica. Tutto ciò ha notevolmente accorciato la durata della pena originaria, fissata a 30 anni, ad appena poco più di 10.
Dal 21 gennaio scorso, Ruggero Jucker, 46 anni, è un uomo libero, a cui spetta meramente l’obbligo periodico di firma al registro di polizia. Respinto dal tribunale di sorveglianza anche l’obbligo, statuito dalla sentenza, del ricovero forzato da spendersi presso correlato istituto di cura per un periodo triennale; rimane pregnante la remora che ora mette in dubbio la reale valenza di un’applicazione normativa così rigidamente ferrea, a cospetto di un caso così specifico, sia penalmente che moralmente, di assiomatica gravità.
Non sembra giusto ai più, specialisti e non, che l’omicida sconti un’iter punitivo così indulgente, soprattutto in virtù del fatto che lo stesso aveva dimostrato recenti segni di squilibrio, tanto da richiedere in carcere la sottoposizione alle cure psichiatriche. Ci si interroga sull’effettiva riabilitazione di Jucker, e si grida già al caso O.J. Simpson, campione di football americano convertito in star del cinema che, anni fa, fu a sorpresa assolto dall’accusa di omicidio della moglie, pur a fronte di una schiera indiziaria pressoché inchiodante.
Si recrimina, pertanto, la trasposizione italiana di una regola infelicemente diffusa, in ragione della quale diventa la potenza mobilitante dei mezzi a disposizione, e non l’effettiva evidenza probatoria raccolta, il fulcro che concorre a decretare la differenza qualitativa tra l’imputato condannabile e di converso l’assolvibile.
La notizia lascia ovviamente sbigottiti i familiari della vittima. In particolar modo la madre, Patrizia Rota, si pronuncia “attonita” dinanzi l’infausto epilogo penale; “Io non credo che sia possibile fare giustizia per un atto tremendo come quello che è stato compiuto e nessun processo e nessuna condanna potrà mai colmare il nostro dolore. Avevamo auspicato una pena molto più pesante, almeno quanto quella del primo grado, purtroppo abbiamo dovuto accettare la riduzione in appello. Credo proprio che in questo caso la giustizia sia stata profondamente ingiusta”, ammette con rammarico la signora Rota.
Quel che rimane è la comune, talvolta irosa, incapacità comprensiva verso un sistema di giustizia che segue ramificazioni inique, tanto inverosimilmente perdoniste in alcuni casi, quanto eccezionalmente punitive in altri. “La legge è uguale per tutti” rimane, saldo, un principio fondativo della nostra democrazia; e se applicarlo, da parte di tutti gli organi di giustizia, costituisce un dovere; il saper discernere le circostanze in cui diventa lecito accordare agevolazioni da quelle invece in cui è d’uopo mantenere inflessibilità, diventa un vincolo imprescindibile.
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