Tra spending review e richieste della BCE…

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Il Consiglio dei Ministri è chiamato ad affrontare il tema della spending review cui ha lavorato il ministro Giarda e sul cui rapporto negli ultimi giorni sono apparse numerose anticipazioni di stampa: riduzione delle Prefetture, taglio alle spese per tribunali e scuola, tagli lineari alla spesa.

In questo contesto non poteva mancare, sempre a leggere quanto apparso sulla stampa, l’intervento della Banca Centrale Europea che rilancia l’accorpamento delle province come soluzione per ridurre i costi della politica. E poi insiste per riportare al centro dell’attenzione  il capitolo concorrenza e liberalizzazioni per rilanciare la crescita. La Banca centrale europea  fa sapere di guardare “con attenzione” alla spending review e insiste: accorpare le province “sarebbe l’unica vera misura di taglio di costi della politica” (?!).

Nessun commento su tale affermazione, se non altro perché ci piacerebbe prima davvero conoscere i contenuti completi di tale ennesimo ammonimento della Banca che ormai sembra dettare i tempi alla politica sempre più in affanno ed ai nostri Governi, politici o tecnici che siano.

Ci limitiamo a riportare il commento del Presidente dell’UPI: “Sono mesi che ribadiamo che l’unica riforma possibile è la razionalizzazione delle Province, l’accorpamento degli uffici periferici dello Stato, il taglio delle società e degli enti strumentali. Oggi la Bce non fa che attestare che la proposta dell’Upi è la più innovativa ed efficace. Forse adesso qualcuno ci darà ascolto. Accorpare le Province, tagliare tutta quella miriade di società e di enti che sprecano il denaro pubblico lontano dal controllo democratico, razionalizzare gli uffici periferici dello Stato. Questa è la vera riforma che può aiutare il Paese. Noi abbiamo calcolato che se si seguisse la strada indicata dall’Upi nella proposta di legge presentata già prima di Natale e che oggi la Bce rilancia, si produrrebbe almeno 5 miliardi di risparmi. Ma soprattutto si garantirebbero servizi più efficienti per le comunità e una pubblica amministrazione più moderna ed efficace. Finora il nostro appello non è stato mai colto: forse con l’intervento della Bce sarà più facile rilanciare una discussione seria con il Governo, abbandonando la strada inutile e dannosa dell’articolo 23 del decreto “salva Italia”, che non porta da nessuna parte, produce nuovi costi e cancella la democrazia locale”.

In tutto il dibattito sui tagli alla spesa ci chiediamo: che cosa ne è del federalismo fiscale e dei principi espressi dalla legge delega n. 42 del 2009, che faticosamente avevano trovato una prima attuazione nei decreti legislativi approvati nel 2010 e 2011?

Non doveva valere il principio della correlazione tra l’imposizione fiscale e l’erogazione dei servizi pubblici?

Non doveva valere il principio dell’attribuzione di specifiche imposte – o di relativi gettiti – agli enti territoriali?

Non doveva introdursi una chiara definizione delle responsabilità impositive proprie di ciascun ente?

La BCE di tutto questo non si è mai occupata nei suoi “ammonimenti”!

Sembra che si abbia paura della trasparenza verso gli elettori e della confrontabilità delle politiche di spesa e del superamento del concetto di spesa storica verso l’unica previsione, veramente rispettosa di un vero principio di solidarietà, della spesa standard.

Perché?

Si ha paura dell’assunzione piena di responsabilità nei confronti dei cittadini e l’emersione delle voragini determinate nel bilancio dello Stato da una gestione dissennata e incapace che si è finora registrata in molte Regioni del nostro Paese.

Se si premia chi ha più creato disavanzi, per quale motivo le amministrazioni locali dovrebbero chiedere sacrifici ai propri cittadini piuttosto che fare politiche demagogiche creando disavanzi destinati prima o poi ad essere coperti dalle tasse di tutti gli italiani?

Chi ha paura del federalismo fiscale teme la responsabilità, la trasparenza delle decisioni di spesa e la loro imputabilità, così impedendo di continuare a contrabbandare come solidarietà quello che invece è rendita, clientela politica, o, peggio ancora, circuito d’illegalità.

Il processo di attuazione del federalismo fiscale avrebbe dovuto imporre una coerente individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane e un profondo ripensamento dell’adeguatezza dimensionale di ogni livello di governo affinché le istituzioni territoriali possano esercitare effettivamente le loro funzioni in autonomia e responsabilità.

Si potrebbe obiettare che in un momento di crisi globale non sia il momento del federalismo; in realtà è proprio in questa situazione che non è possibile continuare a giustificare un assetto istituzionale che favorisce la rendita e la deresponsabilizzazione.

Purtroppo, invece in nome dell’emergenza, gli interventi legislativi più recenti stanno conducendo ad una compressione costante ed inaccettabile dell’autonomia degli Enti costitutivi della Repubblica, con un ritorno al centralismo che ha determinato tutti i guasti alle finanze pubbliche che oggi siamo chiamati a tamponare.

Ma, di emergenza in emergenza, è facile non soltanto derogare ai principi, ma anche colpirli nella loro essenza.

Allora, è necessario che, superato questo momento, non si prosegua nell’adozione di decisioni estemporanee che, per quanto necessitate, introducono elementi distorsivi nel sistema, e si ponga nuovamente attenzione al processo di attuazione del federalismo fiscale.

Tra l’altro, per quanto farraginoso e criticabile in alcune parti, il senso complessivo del percorso avviato nel 2009 è proprio quello della predisposizione di un meccanismo di responsabilizzazione degli enti territoriali nel reperimento e nell’impiego delle risorse finanziare.

La legge 42/2009, va ricordato, è stata approvata nell’attuale legislatura, dagli stessi Parlamentari che oggi discutono delle Province, con largo consenso tra le forze politiche che ne ha determinato una approvazione parlamentare con ampia maggioranza.

La votazione finale dell’atto è avvenuta in Senato il 29 aprile 2009 ed ha mostrato il carattere “bipartisan” dei suoi contenuti, dato che su 248 presenti solo 6 sono stati i voti contrari

Tale votazione ha sostanzialmente replicato quella avvenuta il 24 marzo 2009 alla Camera dove su 549 presenti i contrari sono stati solamente 15.

La salvezza finanziaria dell’Italia tutta non può non passare attraverso la consapevole e ponderata applicazione dei principi costituzionali e legislativi che guidano il federalismo fiscale.

Certo, si potrà operare anche mediante opportune modifiche e integrazioni, così come è consentito dalla possibilità di adottare decreti integrativi e correttivi.

Ma senza una solida visione d’insieme si realizzeranno risultati soltanto parziali e provvisori, e la stessa coesione nazionale potrebbe essere messa in pericolo.

Condividendo una recente analisi del prof. Giulio M. Salerno, Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico presso l’Università di Macerata (su Federalismi.it n.25/2011) “il federalismo fiscale, proprio per come è stato impostato dalla legge n. 42 del 2009, può rappresentare un formidabile strumento per portare finalmente ordine nelle finanze pubbliche delle autonomie territoriali.

Certo, i molteplici principi di delega si presentano come una sommatoria di indirizzi non sempre convergenti, ma hanno il pregio di consentire una forte dose di flessibilità in sede di attuazione.

Tale flessibilità, inoltre, può essere opportunamente combinata con quel metodo della concertazione interistituzionale che, previsto dalla stessa legge, è riproducibile anche nei decreti correttivi e integrativi.

Tutto ciò potrebbe essere utilmente impiegato al fine di assicurare l’effettivo inveramento dei sopra richiamati principi di responsabilità, correttezza e trasparenza nella complessiva gestione della cosa pubblica in un assetto istituzionale ormai così decentrato come il nostro.

Non vi è dubbio che i decreti legislativi, adottati nel 2010 e 2011, presentino omissioni e aspetti di debolezza; in particolare, per non pochi aspetti essi rinviano a ulteriori procedure attuative di complessa concretizzazione.

Ma, a tacer d’altro, il passaggio dalla spesa storica al finanziamento garantito per i soli livelli essenziali delle prestazioni in alcuni cruciali settori dello Stato sociale (istruzione, salute e assistenza) – così come per le funzioni fondamentali degli enti locali – rappresenta un esito particolarmente innovativo e che non può essere abbandonato senza correre il rischio di tornare ai trasferimenti “a piè di lista”.

Inoltre, dal punto di vista dei rapporti tra le istituzioni repubblicane, il federalismo fiscale ha previsto l’istituzione – non del tutto completata -di sedi di coordinamento ove sono compresenti i rappresentanti dello Stato, delle regioni e degli enti locali, e a cui sono affidati importanti compiti destinati ad incidere anche sugli stessi contenuti della riforma”.

Tutto ciò considerato, l’impegno a proseguire con convincimento nell’attuazione del federalismo fiscale, anche mediante i correttivi necessari alla luce delle presenti condizioni finanziarie e dei nuovi impegni assunti in sede europea, non può non essere nell’agenda politica che si ponga l’obiettivo di confermare e di consolidare gli elementi di convergenza già presenti nel sistema delle pubbliche istituzioni.

Tuttavia, soprattutto se si dà uno sguardo a quanto è stato deciso nel decreto legge “salva-Italia”, è sembrato emergere un diverso atteggiamento.

Abbiamo già avuto occasione di ricordare come già le tre manovre del precedente Governo avevano fortemente ridotte le risorse finanziarie per gli enti territoriali.

Con il Governo Monti non solo si sono imposti ulteriori sacrifici, ma si è direttamente intervenuti sul fronte dell’autonomia tributaria delle Regioni e degli enti locali: dalla tesoreria unica, ai tagli alla rappresentanza democratica locale (e solo a quella locale!), alla modifica costituzionale sul pareggio di bilancio.

E si è fatto ciò, modificando direttamente anche la disciplina posta nei decreti di attuazione del federalismo fiscale o comunque risultante dalla legge n. 42 del 2009, e comunque senza rispettare quei meccanismi concertativi previsti da quest’ultima.

“Con quali esiti?

Facciamo qualche esempio.

L’addizionale regionale IRPEF è stata automaticamente incrementata, senza consentire alle Regioni di decidere alcunché.

E’ stato direttamente istituito il nuovo tributo comunale sui servizi e rifiuti, senza passare attraverso l’arduo percorso procedurale che, previsto dalla legge n. 42 del 2009, avrebbe consentito la partecipazione della Conferenza unificata e della Commissione bicamerale per l’attuazione del federalismo fiscale.

La cosiddetta “anticipazione sperimentale” della IMU è stata costruita come una sorta di ircocervo, un’originale imposta suddivisa in due “quote” di cui una – quella sulla prima casa – è di spettanza del Comune, che deve applicare una determinata detrazione stabilita dallo Stato (quella sui figli residenti) e che incontra limiti stringenti nella determinazione e combinazione delle aliquote. L’altra quota dell’IMU – sugli immobili diversi dalla prima casa – è divisa tra Comune e Stato in modo tale che a quest’ultimo ne vada comunque la metà, per di più applicando l’aliquota base al lordo di eventuali detrazioni o sconti decisi dall’amministrazione comunale.

Tra l’altro, i Comuni che nel passaggio al nuovo regime vedranno aumentare gli introiti, dovranno riversare la differenza allo Stato, mentre in caso contrario interverrà il fondo di riequilibrio. Ma, mentre sulle modalità di distribuzione del fondo di riequilibrio ancora non si ha contezza, si stima che lo Stato dovrebbe incassare dall’IMU 18 dei 21 miliardi che deriveranno dalla tassazione sugli immobili diversi dalla prima casa.

Insomma, nell’incertezza delle effettive risorse finanziarie a disposizione degli enti locali, è assai probabile che i Comuni manovreranno le leve – anche quelle nuove -messe a loro disposizione nel senso dell’incremento del gettito (ivi compresa l’addizionale IRPEF). Mentre è certo che gli introiti di tutti i predetti cambiamenti del sistema impositivo locale andranno in larghissima parte allo Stato, che peraltro, soltanto per i primi cinque anni, sarà obbligato a destinare queste maggiori entrate agli obiettivi di risanamento della finanza pubblica. L’erario statale, insomma, trarrà i principali benefici da comportamenti autoritativi che i cittadini, quando pagheranno le imposte, imputeranno alla responsabilità primaria delle autonomie territoriali, che, viceversa, non hanno concorso alle decisioni in oggetto”.

Del tutto pretestuosa appare la tesi di chi sostiene che il federalismo farebbe aumentare i costi a carico del bilancio dello Stato.

Pretestuosa in quanto la riforma federale riguarda l’organizzazione dello Stato nel suo complesso, avvicinando l’erogazione dei servizi (oggi già resi) e l’esercizio delle competenze (oggi già esercitate) al cittadino in una virtuosa competizione e verifica che semmai mira a ridurre i costi e individuare gli sprechi, senza tralasciare il dovere di solidarietà nazionale chiaramente enunciato nella legge delega.

I cittadini non tollereranno più a lungo i riti della politica autoreferenziale, lontana dalle aspettative della gente, che anziché dare le risposte attese da anni cerca di conservare privilegi.

E in una situazione di grave crisi economica internazionale tutto ciò diventa intollerabile.

Non c’è alternativa al federalismo fiscale; chiunque pensi che l’Italia possa superare la crisi senza cambiare la struttura del proprio stato ed adottare un vero federalismo fiscale su base territoriale si sbaglia.

Bisogna avere consapevolezza che, proprio in questa fase in cui si registra la evidente difficoltà della politica a svolgere il suo ruolo di interpretare e tradurre in azioni amministrative e di governo i bisogni della gente, occorre ripartire dai territori e dalle amministrazioni locali, quali sedi storiche e naturali di esercizio della democrazia partecipata, evitando il ritorno al centralismo statale.

Da chi oggi ha la responsabilità di guidare il nostro Paese ed ha il potere ed il dovere di agire in Parlamento è lecito attendersi qualcosa di più che agitare il fantasma dell’antipolitica come rischio grave per la nostra democrazia; occorre andare ben oltre l’ “effetto paura” sull’opinione pubblica e fare in modo, anche con provvedimenti drastici ma efficaci, di recuperare progressivamente fiducia e credibilità, oggi praticamente scomparse.

Occorre il coraggio delle decisioni; non è più tempo di pensare che i cittadini possano accettare ulteriori interventi poco comprensibili o decisioni sotto dettatura bancaria.

I cittadini oggi non sono più – per usare gli straordinari versi di Dante (Purgatorio – canto III):

Come le pecorelle escon del chiuso

a una, a due, a tre, e l’altre stanno

timidette atterrando l’occhio e ‘l muso;

e ciò che fa la prima, e l’altre fanno,

addossandosi a lei, s’ella s’arresta,

semplici e quete, e lo ‘mperché non sanno;

Oggi sanno, vogliono sapere e vogliono condividere perché e con quale obiettivo si assumono le decisioni. E non sono più disposti facilmente – almeno è questo il mio auspicio – a seguire il pifferaio magico solo per il suono che emana, sia esso un politico, un tecnico o un banchiere, ma per i fatti e gli atti concreti che realizza.


Carlo Rapicavoli

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