Il Tfr in busta paga è la fine del renzismo

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Dite addio al rottamatore. Con la nuova proposta di portare il Tfr nella busta paga dei lavoratori italiani, Matteo Renzi ha definitivamente smesso i panni del ragazzo testardo, arrivato al potere per rivoltare il palazzo cancellando regalie e privilegi, per indossare quelli meno rassicuranti del restauratore. 

Se c’è un tratto che definisce un leader innovatore o retrogrado, timido o coraggioso, è certamente la sua visione dell’economia e, in particolare, quella sul lavoro e i diritti di persone e famiglie. Ebbene, la proposta in arrivo domani al tavolo con le parti sociali – come annunciato dallo stesso Renzi nella newsletter di questi giorniè una delle operazioni più conservatrici in ambito di politica occupazionale e di welfare registrate negli ultimi anni, pur martoriati da provvedimenti lacrime e sangue dovuti alla più longeva e drammatica recessione dal 1929.

Nei giorni scorsi, l’anticipo del Tfr sembrava niente più che una mera ipotesi di scuola, con il governo impegnato a far quadrare i conti dopo il drastico cambio di rotta degli indicatori economici, le prospettive per la crescita ridotte al minimo e la disoccupazione sempre galoppante. A tempo di record, invece, è arrivata la conferma: il governo nelle prossime ore presenterà lancia in resta il nuovo piano Tfr.

Arrivato a palazzo Chigi con un passaggio tutt’altro che trasparente, togliendo di mezzo Enrico Letta per trovare finalmente campo libero, Renzi quantomeno poteva contare sulla fama di rottamatore, che tanta fortuna gli aveva portato fino a quel momento, rispetto al più compassato e a tratti impalpabile predecessore. Tagli alla spesa pubblica, riduzione degli sprechi e dei benefit di Stato, ma soprattutto un’inversione di tendenza nella distribuzione delle risorse non erano solo manifesti della filosofia dell’ex sindaco, ma, presa in mano la campanella del Consiglio dei ministri, ci si attendeva diventassero la bussola della sua azione di governo.E’ quanto, con buona probabilità, si attendevano tanti elettori che alle urne, lo scorso 25 maggio, hanno barrato il simbolo del Pd, portandolo alla più larga affermazione della sua storia.

E invece, il primo anno di governo dell’ex guastafeste della politica italiana, si avvia alla conclusione con un provvedimento che grida vendetta, in primis da parte dei giovani lavoratori, quelli che magari hanno maturato pochissimi anni di contribui e sanno fin d’ora che una pensione non la vedranno mai, a differenza di politici romani e consiglieri regionali, per i quali invece i vitalizi abbondano anche in tempi di crisi.

Altro che articolo 18. Di fronte a un’economia impantanata che non riesce a ripartire, con prospettive di carriera sempre meno legate al merito, contratti precari all’ordine del giorno e opportunità di crescita solo oltre confine, il governo sta pensando di cancellare anche l’unica residua assicurazione sul futuro dei lavoratori, la sola ancora di salvataggio in caso di licenziamento o di conclusione del contratto, il Trattamento di fine rapporto.

Passino gli 80 euro, manovra affrettata per fini elettorali e a supporto del potere d’acquisto delle famiglie, con il bonus per le fasce meno abbienti. Ma ora, con il Tfr in busta paga, la filosofia della “paghetta” sta prendendo il sopravvento: il governo dimostra di navigare a vista, senza alcuna programmazione sul lungo termine, ma semplicemente rompendo il salvadanaio che, peraltro, è già proprietà dei lavoratori. Una mossa che sa tanto di disperazione e trasforma definitivamente l’ex giovane Renzi da megafono della “generazione perduta” a un pericoloso e ancora inedito incrocio tra gattopardo e caimano.

Francesco Maltoni

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