“L’ingiustizia è facile da sopportare. E’ più difficile sopportare la giustizia”. Come non dare ragione a Henry Louis Mencken, giornalista e saggista statunitense della prima metà del XX secolo, nel commentare l’approccio politico dei gruppi parlamentari di sostegno al Governo Letta sulle imminenti nomine dei componenti laici dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa. Ci siamo infatti assuefatti all’ingiustizia come stile di vita a tal punto che il cambiamento in direzione di una giustizia giusta provocherebbe disorientamento e turbamento. Come a dire “ma scusate cosa sta succedendo?”. Noto è infatti il motto di Euripide, “Tu veneri la giustizia, ma con l’ingiustizia ti regoli”. Insomma nessuna novità su questo tema attira la nostra curiosità, così come nessuna meraviglia dovrebbe provocare la notizia dell’imminente nomina parlamentare dei componenti laici dell’organo di autogoverno della magistratura amministrativa secondo il tradizionale metodo lottizzatorio (rectius, cencelliano?).
Del resto, prima ancora di chiedersi se è corretto e democratico lasciare “a bocca asciutta” i gruppi parlamentari di minoranza da siffatte nomine, bisognerebbe chiedersi se è corretto e democratico che un potere dello Stato (quello legislativo nella fattispecie) interferisca nell’organizzazione interna di un altro potere, ancorchè non elettivo (l’ordine giudiziario). Siamo proprio sicuri che la legge n. 186 del 1982, istitutiva del citato organo di autogoverno, così come modificata dalla più recente legge n. 205/2000 che ne rivede composizione e funzioni, sia conforme all’art. 104 della Costituzione?
Se il principio di separazione tra i poteri dello Stato, senza bisogno di scomodare Aristotele prima e Montesquieu dopo, risulta essere uno dei principi cardine del costituzionalismo liberale e come tale pilastro di ogni democrazia occidentale, perché il legislatore ordinario rimane sempre contagiato dalla necessità macchiavellica (ragion di Stato?) di mantenere forme più o meno evidenti di “cordoni ombelicali” e/o di “vasi comunicati” tra i poteri dello Stato. Probabilmente, uno studio più approfondito delle tecniche di check and balanceo del principio costituzionale di leale cooperazione ci aiuterebbe non poco a trovare risposte plausibili, ma in questa sede ci limiteremo ad evidenziare brevemente solo un’evidente contraddizione presente nel nostro ordinamento.
Per arginare lo spoil system all’italiana la Corte Costituzionale con due storiche sentenze (n. 103 e 104 del 2007) ha graniticamente sancito il principio secondo cui “La selezione dei pubblici funzionari non ammette ingerenze di carattere politico, espressione di interessi non riconducibili a valori di carattere neutrale e distaccato, unica eccezione essendo costituita dall’esigenza che alcuni incarichi, quelli dei diretti collaboratori dell’organo politico, siano attribuiti a soggetti individuati intuitu personae…”.
Applicando tale principio al caso che ci occupa, emerge ictu oculi una contraddizione. Infatti se nella scelta dei funzionari della Pubblica Amministrazione, che notoriamente appartengono al potere esecutivo, non è ammessa alcuna ingerenza di carattere politico, come può il legislatore ordinario affidare ad un organo politico, qual è per antonomasia il Parlamento, la competenza di nominare alcuni componenti di un organo appartenente al potere giudiziario? A meno di volere ritenere, per assurdo, tali designazioni il risultato di incarichi di diretta collaborazione e come tali attribuiti a soggetti individuati intuitu personae, appare impensabile che una siffatta potestà in capo a chi detiene il potere legislativo possa contribuire ad assicurare l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario.
In questo contesto, dove è veramente difficile pretendere una giustizia giusta, è forse più facile rifugiarsi dietro il più comodo aforisma di Carlo Dossi per il quale “Il mondo non può sostenersi senza ingiustizia”.
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