La riforma “a rate” dell’ente intermedio in Sicilia nuoce gravemente ai siciliani

Massimo Greco 10/08/16
Se la riforma dell’ente intermedio attuata dal legislatore statale non è ancora riuscita convincere la dottrina più autorevole, è in Sicilia che il legislatore mostra il lato peggiore nell’uso del nobile potere legislativo.

La riforma “a rate” dell’ente intermedio siciliano è stata infatti un vero e proprio bluff. Con le quattro leggi regionali di riforma non solo non si sono recepiti i principi di grande riforma economico e sociale contenuti nella legge statale “Delrio” – che in attesa della soppressione definitiva dalla Costituzione ha “svuotato” di funzioni amministrative le Province delle regioni a statuto ordinario – ma ne ha, paradossalmente, potenziato funzioni e competenze dietro la fumosa definizione statutaria di “liberi Consorzi comunali”, con l’aggravante di non avere neanche previsto un’adeguata copertura finanziaria.

Il Piano di Rafforzamento Amministrativo

Tutto questo, mentre la Commissione Europea raccomanda alla Regione Sicilia, attraverso l’Accordo di partenariato del 29 ottobre 2014, di dotarsi del Piano di Rafforzamento Amministrativo (PRA) allo scopo di assicurare “la migliore gestione con un’azione risoluta di miglioramento della capacità di amministrazione, della trasparenza, della valutazione e del controllo”.

Le vicende politiche che fanno da sfondo alla riforma del governo locale in Sicilia richiamano alla memoria il romanzo fantastico di Michael Ende “La storia infinita” che ricomincia sempre dallo stesso punto e sembra non approdare mai alla conclusione finché il protagonista non accetta di occupare il suo posto nella storia, di viverla e di concluderla con la differenza che, nel nostro caso, la “storia” è ben lungi dal trovare un epilogo.

Il legislatore (sia quello statale che, a fortiori, quello regionale) non sembra essersi reso conto dei rischi connessi all’istituzionalizzazione dall’alto di quei processi che, invero, nascono e si strutturano solo dal basso.

La regolazione deve essere leggera, deve incentivare il networking, senza pretendere di avocare ad un insieme di norme rigide la regolazione di fenomeni che hanno bisogno di contesti fluidi.

La norma deve essere lubrificante del motore produttivo, agevolarne il funzionamento delle diverse parti messe sotto sforzo dalla competizione. Soprattutto, la norma non deve diventare uno strumento fine a se stesso, cioè “creare” l’oggetto della sua regolazione.

Platone insegnava che le leggi devono essere amate (cosa più importante della loro comprensione e della conoscenza), e, essendo amate, saranno obbedite. Altri tempi ed altra filosofia! Sta in fatto però che se la norma posta serve per correggere un comportamento non condiviso, tanto meno sarà amata, e, quindi, rispettata.

Non è rifiuto della democrazia, ma, come già detto, la crescente distanza tra società e politica. Distanza che non può essere colmata con un’attività legislativa, frutto della “casualità del volere” (N. Irti), e destinata solo ad incrementare il numero delle leggi tanto inadeguate quanto inosservate.

Massimo Greco

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