Ci sono diversi modi di fare i rivoluzionari così come svariate sono le tipologie di riformismo. In entrambe le dottrine politiche il cambiamento rappresenta un obiettivo da perseguire, “costi quel che costi” per i rivoluzionari, “senza se e senza ma” per i riformisti. Difficile è stabilire oggi se la riforma istituzionale dell’ente intermedio si avvicini al rivoluzionario o al riformatore.
Così come difficile è fare un ragionamento su questa riforma senza distinguere quella siciliana dal resto d’Italia. Se infatti, nel disegno disordinato, demagogico e dal fiato corto si registra comunque una certa coerenza del legislatore statale, sul versante siciliano, ai sentimenti di sconforto si associano quelli melodrammatici di un legislatore regionale che sembra non avere capito nulla. Mentre il legislatore statale è riuscito, con non poche difficoltà, a svuotare le Province nella prospettiva di una loro espunzione definitiva dalla carta costituzionale, in Sicilia si è voluto, come sempre, tentare la carta delle furbizia istituzionale.
Cambiare tutto per non cambiare niente. Le vecchie nove Province regionali sono state sostituite da tre città metropolitane e sei liberi consorzi comunali. Un cambio che, al netto della sola riforma del modello di governance – da elezione diretta a indiretta -, non solo non ha intaccato la permanenza nell’ordinamento istituzionale dell’ente intermedio, ma ha posto le basi per un suo potenziamento. Alle tradizionali funzioni amministrative della l.r. n. 9/86 i nuovi consorzi comunali godranno infatti di ulteriori competenze in ambito ambientale ed urbanistico. Il tutto sulla base di un’autonomia statutaria regionale che però non riesce ad essere altrettanto autonoma nella gestione delle risorse finanziarie.
L’ardita riforma siciliana dell’ente intermedio, fin dalla sua travagliata gestazione, non ha tenuto nella doverosa considerazione il simmetrico rapporto tra funzioni amministrative e risorse finanziarie, pensando di poter ancora contare su quei trasferimenti che lo Stato ha assicurato nel passato a tutte le Province comprese quelle siciliane. Il bluff del legislatore siciliano non regge più. Al mancato adeguamento ai principi di grande riforma economico e sociale contenuti nella riforma statale “Delrio” si aggiunge, paradossalmente, la pretesa di mantenere invariati in capo alla sola Regione Siciliana i trasferimenti statali riservati alle sopprimende Province.
In sostanza, la Regione Siciliana ha la faccia tosta non solo di chiedere capricciosamente allo Stato la chiusura di un occhio per il mantenimento di un ente intermedio che tra qualche mese scomparirà dalla Costituzione, ma anche quello di continuare a farsi finanziare il suo capriccio istituzionale.
In questo quadro disarmante, a pagarne le conseguenze saranno certamente i cittadini quali beneficiari finali di servizi che non avranno più, ma anche i 6500 dipendenti che, a differenza dei propri colleghi delle altre Province d’Italia ai quali sono stati assicurati i rispettivi livelli occupazionali attraverso svariate formule derogatorie per transitare in altri Enti, avranno molte meno possibilità di ricollocazione.
“Ciò che trasforma lo Stato in un inferno è il tentativo dell’uomo di farne un paradiso” (Friedrich Hölderlin)
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