Ci eravamo lasciati su questo blog qualche mese fa paventando imminenti ulteriori puntate, visti gli ultimi interventi del precedente Governo di dubbia legittimità (“reviviscenza” delle norme abrogate dall’ultimo referendum) e i confusionari debutti in materia del nuovo Governo (DL n.1 e 83/2012).
Ebbene finalmente si è arrivati alla quadratura del cerchio: l’ultima inevitabile puntata che ha visto come indiscusso protagonista la Corte Costituzionale che con la stessa forza di uno tsunami ha spazzato via tutto l’apparato legislativo fragilmente costruito da un precipitoso Legislatore abbagliato dal sole dell’estate 2011: con la sentenza n.199/2012, lo scorso 20 luglio la Consulta ha dichiarato illegittimità costituzionale dell’art.4 del DL n.138/2011 (“Manovra di Ferragosto”), convertito con modificazioni in L.n.148/2011 e ulteriormente integrato da dalla L.n.183/2011 (Legge di Stabilità 2012) e da alcuni interventi del Governo Monti, quali il DL n.01/2012 (Decreto Liberalizzazioni) e il DL n.83/2012 (Crescitalia).
Il Giudice delle Leggi, a seguito di separati ricorsi delle Regioni Puglia, Marche, Emilia Romagna, Umbria e Sardegna, ha ritenuto ammissibile la questione di legittimità in relazione all’art. 75 della Costituzione che tutela gli effetti abrogativi del referendum ed il conseguente divieto di ripristino della normativa investita dalla volontà popolare.
Nel ripercorrere il contesto normativo preso in considerazione dalla Consulta, non si può non rilevare che il noto art.23 bis del DL 112/08 aveva rappresentato, superando il precedente riferimento costituito dall’art.113 del D.Lgs.267/00, un chiaro cambiamento di rotta del Legislatore all’insegna del rilancio della competitività al fine di favorire la più ampia diffusione dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi di interesse generale a rilevanza economica in ambito locale; tuttavia la stessa disposizione, riconoscendo quale modalità ordinaria di conferimento della gestione il ricorso a imprenditori o società in qualunque forma costituite individuati mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, e, quali modalità in deroga, l’affidamento sia a società società miste (cd partenariato pubblico privato) che a totale partecipazione pubblica a condizione del “rispetto dei principi della disciplina comunitaria” e della dimostrazione della sussistenza di “caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento che non consentono un efficace ricorso al mercato” da sottoporre al parere preventivo (non vincolante) dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, indusse il legislatore ad intervenire nuovamente a distanza di un anno con l’art.15 “Adeguamento alla disciplina comunitaria in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica” del D.L.n.135/09 (cd decreto salva infrazioni) convertito, con modificazioni, dalla Legge n.166/09, che introduceva una nuova modalità “ordinaria” per il conferimento della gestione di SPL, ossia l’affidamento a società miste (partecipate da pubblico e privato ove la selezione del socio privato avvenisse mediante gara a “doppio oggetto” riguardante dunque sia l’individuazione del socio, sia l’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione, con attribuzione di quote al privato non inferiore al 40%) continuando a considerare in deroga esclusivamente l’affidamento in house a società a totale partecipazione pubblica e ribadendo il necessario ruolo consultivo dell’AGCM con il chiaro intento di creare un freno alle intenzioni delle amministrazioni locali di ricorrere agli affidamenti diretti e un argine ad eventuali rinnovi degli affidamenti in house in scadenza.
Due rilevanti interventi normativi ed una serie di disposizioni ulteriori spesso contraddistinte da scarsa sistematicità cui seguì quello che per qualche mese costituì un punto fermo nella disciplina di settore, il Regolamento Attuativo dell’art.23 bis, ossia il DPR 168/10.
Il Decreto in questione confermava la linea di indirizzo volta all’accrescimento della competitività nei servizi economici di interesse generale pur escludendo l’applicazione della norma con riferimento ai servizi disciplinati da normativa di settore quali la distribuzione del gas naturale e dell’energia e lettrica, il trasporto ferroviario regionale e della gestione delle farmacie comunali.
Dopo appena sei mesi, i dirompenti esiti referendari del giugno 2011 con l’abrogazione dell’art.23 bis e la consequenziale caducazione del Regolamento attuativo del medesimo articolo, il tutto con decorrenza dal 21 luglio 2011 a seguito della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del DPR n.113/2011“Abrogazione, a seguito di referendum popolare, dell’articolo 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 133 del 2008, e successive modificazioni, nel testo risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 325 del 2010, in materia di modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”.
A questo punto si veniva a creare un vero e proprio vuoto normativo nella materia dei servizi pubblici locali, tuttavia repentinamente colmato dopo appena un mese con l’art.4 della cd “manovra di ferragosto”, il D.L.138/2011 (“Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo”) poi convertito in L.n.148/16.09.2011 e modificato in ultimo, tra gli altri, dai Decreti Monti n.1/2012 e n.83/2012, rispettivamente “Decreto liberalizzazioni” e “Crescitalia”
L’articolo in questione, pur nominato “Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea”, veniva accompagnato da non poche polemiche visto che, nel tentativo di contenere il disorientamento generale in materia, il legislatore era intervenuto riproponendo molte delle disposizioni presenti nell’abrogato art. 23-bis e nel caducato Regolamento Attuativo (DPR 168/10) e tutto ciò in contrasto con il divieto disposto dalla Corte Costituzionale “di formale e sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare” (cfr. Corte Cost. n.32/93) .
Una norma che riproponeva le modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica, richiamando dunque quanto già disposto dall’abrogato art.23 bis in merito al rispetto dei principi comunitari di economicità, trasparenza, non discriminazione, proporzionalità nell’indizione di procedure competitive ad evidenza pubblica, e quanto già prescritto dal DPR 168/2010 attuativo dell’art.23 bis, con riferimento al contenuto del bando di gara.
Veniva anche ripresentato, seppur con riaggiornate scadenze temporali, il regime transitorio di adeguamento per gli affidamenti “non conformi”, elencazione dunque di termini che, in virtù della continua “evoluzione” della normativa di settore, era stata più volte rivista nel corso degli anni dal Legislatore prima con l’art.23 bis, poi con le norme contenute nel Regolamento Attuativo, quindi mediante l’art.4 DL 138, con la precisazione – presente nel testo in vigore prima della dichiarazione di illegittimità della sentenza della Corte Costituzionale in esame – che, in applicazione di quanto stabilito dall’art. 14 c.32 DL 78/2010 e s.m.i, le disposizioni in esame non si sarebbero applicate alle società dei Comuni con popolazione fino a 30.000 abitanti – soggetti al divieto di costituzione di società – ed a quelli con popolazione compresa fra 30.000 e 50.000 abitanti che avrebbero avuto la possibilità invece di detenere una sola società.
Queste alcune delle disposizioni caratterizzanti l’art.23 bis ed in gran parte ripresentate nell’art.4, passato sotto la scure della Consulta.
La disposizione impugnata dunque, osserva la Corte, viola il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare di cui all’art.75 Cost; ciò a conferma dell’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale interno: “il legislatore pur dopo l’accoglimento della proposta referendaria, conserva il potere di intervenire nella materia oggetto di referendum senza limiti particolari che non siano quelli connessi al divieto di far rivivere la normativa abrogata” (C.Cost. n. 33 del 1993) e “la normativa successivamente emanata dal legislatore è pur sempre soggetta all’ordinario sindacato di legittimità costituzionale, e quindi permane comunque la possibilità di un controllo di questa Corte in ordine all’osservanza – da parte del legislatore stesso – dei limiti relativi al dedotto divieto di formale o sostanziale ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare” (C.Cost. n. 9 del 1997)
L’art.4, aggiunge la Consulta, costituisce ripristino della normativa abrogata, considerato che esso introduce una nuova disciplina della materia, “senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina normativa preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti” (C.Cost. n. 68 del 1978), in palese contrasto, quindi, con l’intento perseguito mediante il referendum abrogativo.
La disciplina dettata da tale contestata disposizione risulta addirittura, nella sua ultima formulazione integrata dai Decreti Monti, operare una ulteriore riduzione della possibilità di ricorso agli affidamenti in house, in quanto non solo limita, in via generale, «l’attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità», ma sancisce l’abbassamento del valore economico del servizio entro cui viene consentito l’affidamento a favore di società a capitale interamente pubblico: non più € 900.000,000, secondo quanto stabilito in sede di conversione del D.L. n. 138/2011, ma € 200.000,00 (ndr: da intendere “al netto dell’IVA, tenuto conto di qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto…” secondo il principio sancito dall’art.29 del D.Lgs.n.163/06): “tale effetto si verifica a prescindere da qualsivoglia valutazione dell’ente locale, oltre che della Regione, ed anche – in linea con l’abrogato art. 23-bis – in difformità rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico, alle sole condizioni del capitale totalmente pubblico della società affidataria, del cosiddetto controllo “analogo” (il controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario deve essere di “contenuto analogo” a quello esercitato dall’aggiudicante sui propri uffici) ed infine dello svolgimento della parte più importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante”.
La dirompente quanto prevedibile pronuncia della Consulta comporta dunque il ritorno alla situazione normativa venutasi a determinare con il referendum di un anno fa: viene cassata la legge relativa all’affidamento dei servizi pubblici locali a rilevanza economica di cui all’art.4 DL 138/2011 e si ritorna all’attuazione dei principi comunitari, meno restrittivi e preclusivi, con riferimento all’affidamento in house a società a capitale interamente pubblico, il tutto lasciando presagire un imminente sequel della soap, stavolta si spera dalla sceneggiatura più organica e meno scontata, un nuovo intervento del legislatore più solido ed organico.
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