Sulla fattispecie è stata chiamata a giudicare la quinta sezione della Corte di Cassazione Penale la quale, con sentenza n. 10188/2011 del 16 febbraio 2011, depositata il 14 marzo, ha escluso la sussistenza di reato.
Nella motivazione la Suprema Corte riconosce che nel corso di un procedimento giudiziario le parti spesso utilizzano “frasi e parole che, in diverso contesto, difficilmente sarebbero tollerate” al fine di dare forza alla propria tesi e screditare quella avversaria. Continua sostenendo che “l’ordinamento ritiene ciò perfettamente fisiologico, atteso che si è in presenza di una contesa – aperta e radicale – tra soggetti aventi interessi contrastanti e che esprimono tesi contrapposte”.
Torna nuovamente d’attualità il problema, già affrontato dalla Corte di Cassazione Civile a Sezione Unite con sentenza n. 12167/2008, dei limiti nell’esercizio del diritto di difesa e dell’esimente prevista dal codice penale con riferimento alle espressioni utilizzate negli scritti difensivi.
L’art. 598 c.p., infatti, dispone la non punibilità del difensore che utilizzi espressioni sconvenienti e offensive sempre che le offese siano pertinenti all’oggetto della causa o del ricorso. Viene comunque rimessa al giudice la possibilità di ordinare la cancellazione delle scritture in contestazione e, se del caso, di assegnare alla persona offesa una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.
Analoga disposizione è contenuta nel codice di procedura civile: a norma dell’art. 89 c.p.c., infatti, è posto a carico di parti e difensori il divieto di usare espressioni sconvenienti od offensive. Anche in questo caso il giudice può procedere alla cancellazione delle parole inopportune e, se le frasi pronunciate o scritte non riguardano l’oggetto della causa, può condannare la parte ad un risarcimento del danno.
È evidente, quindi, che ai fini della rilevabilità di un reato, il contesto in cui le frasi offensive vengono pronunciate ha un peso estremamente rilevante. Con la recentissima sentenza sopra citata, infatti, la Corte ha ritenuto che determinati comportamenti processuali siano comprensibili in quanto “trattasi della normale (anche se accesa) dialettica tra persone che sono portatrici di opposte posizioni”.
Archiviata – letteralmente – la valutazione penale, è importante però sottolineare che le stesse espressioni offensive, se non rilevanti penalmente, possono comunque portare conseguenze, anche gravi, sotto il profilo disciplinare.
L’art. 20 del Codice deontologico forense, infatti, dispone un divieto per l’avvocato di “usare espressioni sconvenienti od offensive negli scritti in giudizio e nell’attività professionale in genere, sia nei confronti dei colleghi che nei confronti dei magistrati, delle controparti e dei terzi” a prescindere da quelle che possano essere le norme civili e penali in materia. Al secondo capoverso, poi, esclude la ritorsione, la provocazione e la reciprocità delle offese come giustificazione del non rispetto della regola deontologica.
Ciò precisato, quindi, la scriminate di cui all’art. 598 c.p. non esclude comunque l’avvio di un procedimento disciplinare nei confronti del legale che abbia, con le parole e gli scritti, oltrepassato i limiti già molto estesi del diritto di difesa e di critica scadendo in scorrettezza, mancanza di rispetto e maleducazione.
Doveroso, seppur non necessario, concludere dicendo che, a prescindere dal timore di una sanzione disciplinare o forti della “immunità” da condanne penali, il decoro professionale del singolo come della intera classe forense debba essere difeso rifuggendo qualsiasi comportamento processuale che ne possa minare la trasparenza e il rigore anche formale.
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