Ripercorrendo le tappe di questa vicenda, i fatti contestati a Sallusti risalgono al 2007, quando il giornalista era direttore del quotidiano “Libero“. Il 18 febbraio sulle colonne dell’organo di informazione comparve un articolo a firma di un certo “Dreyfus” dal titolo “Il giudice ordina l’aborto. La legge più forte della vita”, in cui si raccontava la vicenda di una tredicenne di Torino che, rimasta incinta, era stata costretta ad abortire su disposizione di un magistrato. Una decisione dolorosa per la ragazza, seppur sospinta dai genitori, che la avrebbe mandata sulla soglia della depressione, con minacce di suicidio e conseguente ricovero in ospedale.
Un epilogo, in verità smentito dalla Cassazione, che ha ritenuto non veritiera la coercizione denunciata nei confronti dell’adolescente: un procedimento pertito in seguito alla querela sporta dallo stesso giudice, ritenutosi diffamato dal contenuto dell’articolo. Ma, al di là dei dettagli tecnici, la vera questione è che, nel 2012, in Italia, un giornalista rischia il carcere per un reato d’opinione. Già, “rischia” perché, pur in presenza di sentenza definitiva, la pena non è ancora effettiva, essendo Sallusti totalmente immune da recidive o pene pregresse. Eppure, la vicenda ha riportato all’ordine del giorno, con forza inaudita, il sempiterno tema della libertà d’informazione in Italia.
In primis, ciò che colpisce, nel caso Sallusti, è la condanna “indiretta” del direttore, a norma di legge giuridicamente responsabile delle pubblicazioni e, in particolar modo, di quelle per cui non si riesca a rintracciare l’autore in carne e ossa, proprio come nel caso di questo “Dreyfus”. Tra i bene informati e, in ragione dei suoi trascorsi sia a “Libero” che al “Giornale“, Vittorio Feltri c’è da credere che lo sia, viene additato come “esecutore” dell’articolo incriminato nientemeno che Renato Farina, alias “agente Betulla”, giornalista radiato dall’Ordine nel 2006 per aver cucinato ad arte alcune notizie su richiesta dei servizi segreti, come emerso dai risvolti dello scandalo Sismi.
Oggi che proprio quel Renato Farina è deputato del Popolo della Libertà, forse fuori tempo massimo, è arriva l’ammissione sulla paternità del pezzo. Troppo tardi, perché in tribunale la responsabilità dell’articolo del 2007 è ricaduta in toto sulle spalle di Sallusti, in qualità di direttore responsabile al momento della pubblicazione. In questi giorni, in difesa di Sallusti, si sono alzate voci inattese, come quella di Marco Travaglio, vicedirettore de “Il Fatto Quotidiano” e arcinemico di Sallusti sia sulla stampa che nei salotti televisivi.
E sempre oggi, molti giornali, come “Il Sole 24 Ore” o “il Messaggero” escono con spazi bianchi in prima pagina, come segno di protesta contro la condanna inflitta a Sallusti, a detta di tutti un duro colpo contro la libertà di informazione in Italia. E qui siamo al punto: è possibile che i reati dell’informazione in Italia siano ancora strutturati sulle disposizioni previste dal Codice Rocco, normativa edita nel 1930 quando la radio era agli albori, la tv non esisteva, internet era un concetto per visionari e, soprattutto, non esistevano né la Repubblica né tantomeno la democrazia?
A ben vedere, allora, il dibattito sul caso Sallusti diventa anche spunto ideale per una nuova e, ci si augura risolutiva, riflessione sullo stato dell’informazione in Italia e sul rapporto tra libertà di opinione, giustizia e potere. Riguardo la concentrazione dei mezzi di informazione, soprattutto cartacei e televisivi, si è detto e scritto di tutto, ma una vera legge a favore del pluralismo e contro più o meno conclamati conflitti d’interesse non è mai stata approvata.
Ora, il governo Monti ha varato la riforma delle professioni con indicazioni piuttosto vaghe per quanto riguarda i giornalisti, alla cui ridefinizione viene rimandato genericamente a future disposizioni, soprattutto per quanto concerne l’accesso alla professione, ormai diventato privilegio per pochissimi. Il praticantato, unica via di ingresso all’universo dei professionisti, è ormai un fortino inaccessibile dalle vie tradizionali, e molti sono costretti a ripiegare su scuole abilitanti – e tutt’altro che a buon mercato – o giocare la carta più rischiosa del praticantato d’ufficio.
Se gli studi sulla comunicazione e i mass-media differenziano tra giornalisti “cani da guardia” e “cani di compagnia” del potere, in Italia le cose stanno in modo diverso: qui, i giornalisti sono sempre più cani randagi, che scrivono articoli, producono speciali o servizi spesso gratis o per pochi spiccioli, nonostante le intimidazioni e le angherie morali a cui sono sottoposti, proprio come i più tutelati “professionisti”.
Esistono, nelle zone più critiche del Paese, dove la presenza della criminalità organizzata è soffocante ogni giorno, giornalisti precari senza volto e senza nome che mettono a repentaglio la propria vita e quella dei propri cari per la passione e il dovere di raccontare la verità. A questi, nessun Solone dedica focosi editoriali e men che meno dedica dibattiti sulle reti nazionali.
Allora, ben vengano le petizioni, come quella in favore di Alessandro Sallusti. Ma il dibattito sull’informazione non può prescindere da una radicale riforma della professione, che aggiorni finalmente il lavoro del giornalista, non solo abolendo la rilevanza penale dei reati d’opinione – un obbrobrio giuridico e democratico in un Paese civile – ma anche stabilendo criteri di accesso moderni e tipologie di contratto che non obblighino i giovani a tapparsi occhi e orecchie, pur di sbarcare faticosamente il lunario.
Nella scuola, con mille difficoltà, si sta cercando di azzerare le schiere di precari ingrossate negli ultimi anni. Vogliamo partire dal caso Sallusti per riflettere sullo stato dell’informazione in Italia, e farlo finalmente anche tra i giornalisti?
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