All’inizio, e precisamente in sede di lavori di conversione del Decreto Legge nr. 15 del 2020, il legislatore aveva pensato di introdurre una norma che fungesse da “ombrello protettivo” nei confronti degli operatori sanitari sia a livello civile che a livello penale, contro le possibili azioni di risarcimento delle vittime del Covid-19.
L’idea pareva ben motivata, in considerazione della peculiarità connotante l’emergenza sanitaria in atto. Essa era – a tutti gli effetti – una novità assoluta, mai sperimentata prima; rispetto alla quale sembrava più che giustificato un atteggiamento di tutela “preventiva” nei confronti dei soggetti del comparto sanitario e parasanitario: catapultati “in prima linea” in una guerra di trincea, corpo a corpo, contro il Coronavirus.
Tuttavia, questa innovazione non è stata approvata né a beneficio degli operatori sanitari né a beneficio degli amministratori delle aziende sanitarie, pubbliche o private che fossero. In assenza di tale scudo, sarà quindi giocoforza affrontare gli eventi luttuosi verificatisi nel difficile periodo che abbiamo alle spalle in base alle regole già vigenti in materia di responsabilità civile.
La domanda da porsi è: possono i prossimi congiunti di un soggetto deceduto “con il” (se non proprio “a causa del”) Coronavirus, agire in via giudiziaria per ottenere il risarcimento dei danni (non patrimoniali, e quindi morali ed esistenziali) patiti per effetto del decesso del prossimo congiunto?
La risposta deve essere data richiamandosi alle regole ormai consolidate nella materia della responsabilità professionale medica. Soprattutto dopo le cosiddette sentenze di “San Martino” della III Sezione della Corte di Cassazione Civile del 11/11/2019.
Più in particolare, poi, bisognerà rifarsi ai criteri in base ai quali la giurisprudenza più recente e più diffusa affronta il tema delle infezioni nosocomiali, cioè “intra-ospedaliere”; oppure, delle infezioni “extra-ospedaliere” poi non adeguatamente guarite o quantomeno non proficuamente curate all’interno della struttura sanitaria.
Partiamo dal primo aspetto. Oggi, chi si ritiene vittima di un caso di malpractice, è tenuto a ad allegare (cioè “denunciare” e analiticamente descrivere), ma anche a dimostrare il nesso di causa tra la condotta attiva o omissiva dei sanitari e la morte, oppure il deterioramento delle condizioni fisiche e psichiche del paziente.
La prova del nesso causale deve essere fornita secondo il criterio della cosiddetta “preponderanza dell’evidenza” ossia del “più probabile che non”. In altri termini, in sede civile, il danneggiato non è tenuto a dimostrare oltre a ogni ragionevole dubbio che il danno evento sia riconducibile alla condotta dei sanitari. È sufficiente, piuttosto che egli dimostri, secondo un parametro di alta credibilità logica e razionale, che – tra tutte le ipotetiche cause sul tappeto – quella più probabile sia da rinvenirsi nell’azione o nella omissione dei sanitari.
Per quanto riguarda più specificamente i casi di infezione, le strutture sanitarie e gli ospedali vanno incontro a una logica ancora più stringente. Infatti, essi debbono dimostrare di aver adottato una condotta ineccepibile rispetto al dovere di igienizzare, sterilizzare, preservare da possibili infezioni tutte le strutture secondo i protocolli, le linee guida e le buone prassi vigenti.
Nel caso del Covid, è ormai fatto notorio che molti decessi si sono verificati all’interno di strutture residenziali per anziani sofferenti di pluri-patologie: in pratica, il target ideale del virus; e ed è altrettanto noto che proprio in queste strutture sono stati originariamente messi in quarantena (in carenza di spazi presso le strutture pubbliche a ciò deputate) soggetti già infetti da Covid.
È di intuitiva evidenza come una scelta siffatta sia difficilmente giustificabile secondo un retto criterio di buona organizzazione e gestione degli spazi nosocomiali. Quantomeno secondo i severi criteri stabiliti dalla giurisprudenza di merito e di legittimità (Tribunale di Roma 22.06.15, Cassazione civile 5487/2019, Tribunale di Agrigento 370 2016).
A parte questi casi eclatanti in cui sembra difficile un efficace linea difensiva per le struttura eventualmente convenute in giudizio, in tutte le altre ipotesi una possibile strategia per sfuggire alla sentenza di condanna potrebbe essere, da parte delle aziende sanitarie, quella di rifarsi alla “causa di giustificazione” di cui all’art. 2236. Questa norma limita le responsabilità alle sole fattispecie di dolo e colpa grave quanto si verta in tema di prestazioni mediche che richiedano la soluzione di problemi di speciale difficoltà.
Anche in questo caso però, la esimente, potrebbe funzionare rispetto alle prime settimane della pandemia, (quando un po’ tutti brancolavano nel buio) mente sembra più difficilmente utilizzabile se si ha riguardo ai casi verificatisi successivamente.
Infatti, nella vicenda del Covid, c’è stata una vera e propria, impressionante, accelerazione dei “saperi” e delle cognizioni scientifiche rispetto ai “presidi” assistenziali, terapeutici, farmaceutici contro l’aggressività del virus. Di tal che, se poteva ragionevolmente affermarsi che l’agente patogeno fosse difficile da trattare agli esordi del contagio, ciò è di gran lunga meno sostenibile con riferimento alle fasi più avanzate della epidemia. Per finire, un’altra linea possibile di azione risarcitoria potrebbe essere quella nei confronti del Ministero della Salute. Quantomeno laddove si individuassero nel comportamento e nelle azioni adottate da parte dell’amministrazione dello Stato profili di negligenza, sottovalutazione e cattiva gestione dell’emergenza.
La questione merita un accurato approfondimento che andrebbe condotto tramite una meticolosa analisi delle direttive e dei piani di azione approntati dalle branche dell’amministrazione sanitaria statale. E ciò onde verificare se non ci siano stati errori tali da (pesantemente) influire sulla propagazione della malattia.
Ricordiamo che, nella nostra giurisprudenza, esiste tutto un filone connesso alle responsabilità statali in materia di contagio da HIV e HCV per inadeguata sorveglianza delle sacche di sangue oggetto di trasfusione poi rivelatesi non solo potenzialmente, ma anche concretamente infettive.
Insomma, ci troviamo di fronte a un territorio inesplorato. Saranno, come sempre, le sentenze rese sulle prime cause che verranno intentate a indirizzare le successive azioni giudiziarie e lo sviluppo degli orientamenti giurisprudenziali di questa triste vicenda.
Avv. Francesco Carraro
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