Stiamo parlando dell’introduzione dell’obbligo di adesione alla procedura di risarcimento diretto imposta anche alle compagnie assicurative con sede all’estero e che operano in Italia nel mercato RC auto, contenuto nel DDL Concorrenza che ha ricevuto recentemente l’ok dal Senato.
Attualmente le compagnie assicurative con sede all’estero non sono tenute ad aderire a tale procedura, imposta sin dal 2006 dalla Convenzione tra Assicuratori per il Risarcimento Diretto a tutte le imprese assicuratrici con sede legale in Italia.
L’euforia con la quale è stata accolta questa notizia può derivare da una sostanziale ignoranza della materia, o dalla colpevole volontà di convincere i consumatori che si tratti di una novità a loro vantaggio.
Che il sistema di risarcimento diretto sia un fallimento, infatti, è una realtà assodata per chi opera lungo la “filiera” assicurativa e che, quotidianamente, è costretto a confrontarsi con questo meccanismo del tutto inefficiente.
Ma che si tratti di un sistema del tutto fallimentare lo può comprendere anche chi è a digiuno della materia.
Partiamo da una considerazione semplicissima: tutti conoscono l’adagio popolare “chi rompe paga”. E’ una regola di convivenza sociale vecchia come il mondo, che si impara fin da bambini.
Questo detto trova una traduzione normativa nell’art. 2043 del nostro Codice Civile, che recita “Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”
Al Legislatore del 2006 è sembrato che questa regola di diritto naturale non andasse più bene in un particolare contesto, ovvero in materia di incidenti stradali. Si è ritenuto che fosse troppo complesso e gravoso per la vittima di un sinistro stradale richiedere il risarcimento per i danni subiti direttamente a chi li aveva cagionati (o, per essere più precisi, alla compagnia assicurativa di quest’ultimo). Da qui la “geniale” idea di imporre all’assicurato di rivolgere le proprie istanze risarcitorie, quantomeno in fase stragiudiziale, alla propria compagnia assicurativa, che in un secondo momento regolerà i conti con la compagnia di controparte.
Innanzitutto chiariamo, pur con inevitabili semplificazioni, l’ambito applicativo della procedura di risarcimento diretto. Parliamo di sinistri stradali avvenuti in Italia che vedono coinvolti non più di due veicoli, assicurati e identificati, e da cui siano derivati danni materiali ai mezzi (comprese le cose trasportate) oppure lesioni fisiche di lieve entità (cioè che abbiano avuto come conseguenza una invalidità permanente inferiore a 9 punti percentuali).
E’ proprio considerando il meccanismo con il quale avviene il “regolamento di conti” tra le compagnie coinvolte che si può comprendere perché questa procedura non tuteli affatto gli interessi del danneggiato.
Infatti, la compagnia del danneggiato, che è stata chiamata a risarcire il danno in virtù del procedimento descritto, non può richiedere direttamente alla controparte l’importo pagato, in quanto è previsto che possa ottenere soltanto un rimborso “a forfait” attingendo ad una sorta di fondo comune tra le compagnie, alimentato dalle stesse gestito nella cosiddetta “stanza di compensazione”. Tale importo forfettario corrisponde al costo medio dei sinistri calcolato con riferimento all’anno precedente.
E’ facile capire che questo astruso meccanismo non può che alimentare inefficienze e iniquità nella fase liquidativa.
Infatti, se il sinistro che la compagnia è chiamata a risarcire al proprio cliente comportasse un esborso economico superiore alla cifra che potrà poi ottenere in compensazione, essa ovviamente cercherà di ridurre al minimo tale differenza, in modo da limitare la perdita economica.
Viceversa, se la somma da pagare fosse inferiore al costo medio forfettario, inevitabilmente la volontà sarà quella di cercare di massimizzare il più possibile la differenza tra la somma pagata e quella ottenuta in sede di compensazione.
In altre parole, il meccanismo del forfait incentiva le compagnie a sottostimare i risarcimenti, compromettendo gravemente il diritto del danneggiato ad ottenere il giusto ristoro per il danno patito e aumentando, così, il contenzioso in sede giudiziale. Altro che una procedura per “snellire e semplificare l’iter risarcitorio”, come era stata presentata all’epoca.
Con l’ingresso nel mercato RC auto sempre più consistente di compagnie con sede all’estero non aderenti al sistema CARD, gli operatori del settore più ottimisti avevano prospettato la possibilità che si potesse finalmente giungere ad abrogare l’obbligatorietà della procedura di risarcimento diretto in fase stragiudiziale, lasciando libera facoltà al danneggiato di seguire la procedura ordinaria e pretendere il risarcimento dalla compagnia di chi ha causato il sinistro. O, eventualmente, a limitare il risarcimento diretto ai soli danni materiali.
La procedura ordinaria, come è agile comprendere, risulta essere più snella (due sole parti, chi chiede e chi deve pagare, mentre nella procedura di risarcimento diretto c’è il “terzo incomodo” di mezzo) e realisticamente più equa visto che è priva degli assurdi meccanismi della stanza di compensazione.
Del resto, non una, ma ben due volte l’Antitrust ha avuto modo di censurare il totale fallimento del sistema di risarcimento diretto, nel 2011 e nel 2013, auspicandone una revisione.
Insomma, il mercato è cambiato, ma il sistema risarcitorio con cieca testardaggine resta ancorato a strutture totalmente inefficienti che comportano per le compagnie inutili costi aggiuntivi di gestione e di contenzioso (che sarebbe evitabile con una gestione più virtuosa della fase stragiudiziale) che non potranno che gravare ulteriormente sugli assicurati.
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