Orbene, il punto di partenza è costituito dal gruppo delle c.d. sentenze gemelle della Cassazione a Sezioni Unite del 2003 e 2008 (c.d. di S. Martino), della pronuncia delle stesse Sezioni 6572/2006, ed infine dalla decisione del Giudice delle leggi 233/2003.
Tali pronunce prendono le mosse da una idea maturata, a partire dagli anni ’80, per cui si ritenne che il danno biologico, introdotto nel nostro sistema un decennio prima, proprio per garantire la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale, non potesse più “essere utilizzato quale contenitore indistinto utile a racchiudere qualsiasi genere di alterazione del benessere del danneggiato con tutti i problemi di genericità che tale situazione comporta”.
Da esse si ricavano dei fondamentali principi, seguiti dalla successiva produzione giurisprudenziale, -sollecitati dalla esigenza di evitare la proliferazione di liti c.d. bagatellari a favore di quelle veramente meritevoli di attenzione per le conseguenze pregiudizievoli su cui si fondano- che possono così sintetizzarsi.
La responsabilità aquiliana si basa su un sistema bipolare in cui si distinguono danni patrimoniali e danni non patrimoniali.
Trattasi di due categorie (definite spesso macrocategorie) unitarie all’interno delle quali tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale, possono assumere varie forme per la loro capacità di incidere sui vari beni e/o interessi.
La esistenza e la misura di tale incidenza determina i criteri di accertamento e liquidazione.
La ricordata natura unitaria del pregiudizio non consente di moltiplicare le voci del danno che per questo assumono una valenza meramente descrittiva. Essa, lungi dal rappresentare una vera e propria “posta del danno”, consente purtuttavia di “personalizzarlo”con riferimento a tutte le circostanze del caso concreto sottoposte al vaglio del Giudice.
Nella c.d. personalizzazione, il Giudice dovrà considerare che, pur non essendo ammesse duplicazioni del danno, la liquidazione dello stesso deve essere affidata ad un criterio che possa assicurare l’integrale ristoro ed evitare vuoti risarcitori.
A fronte di un danno ingiunto deve essere garantito un giusto indennizzo, attraverso valutazioni equitative idonee quindi a determinare una compensazione economica che l’ambiente sociale ritiene adeguata.
La valutazione equitativa deve essere condotta con prudente e ragionevole apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, alla stregua della coscienza sociale e della gravità del fatto lesivo, dovendosi evitare quella che viene definita preventiva tariffazione della persona (v. Cass. 12/06/2015 n° 12211).
In buona sostanza, pur nella unitaria natura delle due categorie del danno patrimoniale e non patrimoniale, le voci o aspetti o sintagmi in cui, a sua volta, si compendiano detti pregiudizi (es. nel danno emergente, il mancato conseguimento del dovuto o, per riferirci al danno esistenziale, il c.d. sconvolgimento della vita per la perdita del prossimo congiunto) è necessario che essi, in quanto esistenti e provati, vengano tutti risarciti e nessuno sia lasciato privo di ristoro, attraverso la c.d. personalizzazione della liquidazione in luogo di un separato e autonomo risarcimento, dettato da specifiche fattispecie; da considerarsi, invero, precluso sulla base delle suddette considerazioni, laddove si tende ad evitare che lo stesso aspetto o voce del pregiudizio possa essere computato due o più volte in ragione di diverse, meramente formali denominazioni.
In definitiva, compito del Giudice è quello di accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio sofferto a prescindere dal nome attribuitogli, identificando quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate, provvedendo poi alla relativa integrale riparazione.
A questo punto, approfondendo il tema del danno non patrimoniale, la successiva elaborazione giurisprudenziale, all’indomani delle decisioni di S. Martino del 2008, ha posto in rilievo alcuni aspetti in verità molto articolati e complessi che vale la pena ricordare.
Va innanzitutto precisato che il danno non patrimoniale trova la sua disciplina nell’art. 2059 C.C., interpretato, come si suol dire, attraverso una lettura costituzionalmente orientata, e si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona, non connotati di rilevanza economica. Il suo risarcimento postula la sussistenza degli elementi in cui si articola l’illecito civile extra contrattuale, definito dall’art. 2043 C.C..
Un danno-conseguenza, il cui ambito di risarcibilità è dato dall’art. 185 C.P., in primo luogo, che prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante da reato, poi dalle leggi dettate specificamente per regolare le compromissioni di valori personali (ad es. impiego di modalità illecite per la raccolta di dati personale D.lgs. 286/1998, mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo, etc.).
Al di fuori di detti casi, la tutela è estesa anche a quelli di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione dei diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla nostra Carta Costituzionale non necessariamente correlati all’art. 185 C.P.
Tra questi sicuramente ed in primis il danno alla salute (art. 32 Cost.), denominato danno biologico, del quale è data, dagli artt. 138 e 139 D.lgs. n° 209/2005, specifica definizione normativa.
Detto questo, un primo problema si rinviene, leggendo le c.d. sentenze di S. Martino del 2008, laddove si avverte che i patemi d’animo e la mera sofferenza psichica interiore, sono normalmente assorbiti in caso di liquidazione del danno biologico, cui viene conosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva.
In questo senso (v. Cass. 12211/2015 già citata), “è da intendersi la statuizione secondo cui la sofferenza morale non può risarcirsi più volte, allorquando essa rimanga allo stadio interiore o intimo, ma si obiettivizzi degenerando in danno biologico o in danno esistenziale”; così aderendo (a quanto appare) agli espliciti principi sopra ricordati in ordine alla esigenza di evitare duplicazioni risarcitorie.
La recente sentenza della S.C., appena citata, va richiamata per affrontare un’altra tematica connessa con l’argomento qui trattato, cioè quella della natura omnicomprensiva del danno biologico, che ingloberebbe o assorbirebbe anche il c.d. danno esistenziale, ossia un pregiudizio che attiene alla sfera relazionale della persona sulla cui autonoma risarcibilità (ancorché sulla base dei suddetti criteri) molto si discute nelle aule di giustizia.
Prima ancora, occorre però tornare (e chiudere) sulla questione dell’assorbimento del danno morale in quello biologico, segnalando che la più recente giurisprudenza (v. ex multis Cass. 30/07/2015 n° 16197), proprio mercé i richiamati principi delle sentenze di S. Martino, ha chiarito (v. pag. 11 della decisione) che “il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale, al pari di quello biologico, non è ricompreso in quest’ultimo e va liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto normativamente stabilito dall’art. 5 lettera c) DPR 03/03/2009 n° 37, ma in ragione della differenza ontologica fra le due voci di danno che corrispondono a due momenti essenziali della sofferenza dell’individuo: il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana” (in tal senso v. anche Cass. 03/10/2013 n° 22585 e Cass. Sezione Lavoro 16/10/2014 n° 21917).
La prima delle due ultime decisioni ha chiarito che le Sezioni Unite della Cassazione “non hanno predicato un principio di diritto volto alla soppressione per assorbimento, ipso facto, del danno morale nel danno biologico, avendo esse viceversa indicato al Giudice del merito soltanto la necessità di evitare, attraverso una rigorosa analisi delle evidenze probatorie, duplicazioni risarcitorie tra la voce di danno c.d. biologico da un conto e la voce di danno morale dall’altro”.
Riprendendo il discorso sulle complicazioni relative alla possibilità di ricondurre il c.d. danno esistenziale nel sintagma del danno biologico, che in special modo si trova affermata in Cassazione 30/11/2009 n° 25236 e Cass. 10/02/2010 n° 3906, gli stessi motivi appena evidenziati costituiscono serie ragioni ostative, anche alla luce delle contrarie decisioni indicate, tra cui esplicitamente Cass. 09/06/2015 n° 11851. Si legge in detta decisione: “che deve essere sgomberato il campo da ogni possibile equivoco quanto alla autonomia del danno morale rispetto non soltanto a quello dinamico relazionale (predicabile pur in assenza di un danno alla salute)”.
“La stessa categoria del danno biologico” aggiunge la Cassazione “fornisce a sua volta risposte al quesito circa la sopravvivenza descrittiva del c.d. danno esistenziale, se è vero come è vero, che “esistenziale” è quel danno che, in caso di lesione della stessa salute, si colloca e si dipana sulla sfera dinamico-relazionale del soggetto, come conseguenza, sì, ma autonoma, della lesione medicalmente accertabile”.
Negli ultimi anni, soprattutto dal 2010 ad oggi, la Corte Regolatrice è stata sovente chiamata ad esercitare la sua funzione nomofilattica sulla esistenza di un danno esistenziale non assorbito in quello biologico, in quanto ontologicamente diverso, interrogandosi sulla sua natura e portata.
Orbene, ci sembra opportuno, al riguardo, richiamare il pensiero della S.C. espresso chiaramente nella sentenza 09/05/2011 n° 10107 dove viene spiegato con riferimento ad c.d. danno da perdita del rapporto parentale” (connotato dei valori dinamico-relazionali della persona e che più di frequente viene portato alla cognizione del Giudice) che esso” va al di là del crudo dolore che la morte di una persona cara, tanto più se preceduta da agonia, provoca nei prossimi congiunti che le sopravvivono, concretandosi nel vuoto costituito dal non poter più godere della presenza della persona e del rapporto con cui è venuta meno e perciò nell’immediata distruzione di un sistema di vita basato sull’affettività, sulla condivisione, sulla rassicurante quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra figlio e genitori, tra fratello e fratello, nel non poter fare più ciò che per anni si è fatto, nonché nella alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra superstiti”.
Si intravede, attraverso i dicta della S.C come il c.d. danno parentale si sostanzi in pratica in un pregiudizio che si espande attraverso il danno esistenziale, risarcibile iure proprio agli stretti congiunti della vittima, collocandosi nell’area dell’art. 2059 C.C. e ristorando un pregiudizio presidiato costituzionalmente senza i limiti previsti da detta disposizione di legge in correlazione dell’art. 185 C.P., vertendosi in materia di danno che non si presta ad una valutazione monetaria di scambio.
Si tratta, in altre parole, di una sofferenza di intensità tale da sconvolgere considerevolmente le abitudini di vita della vittima riflessa del fatto illecito (per l’appunto, il soggetto legato da una relazione parentale con la persona deceduta), un danno/conseguenza, quindi, per cui l’ ubi consistam va individuato in un interesse particolare che attiene alla intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, nonché all’inviolabile libertà di piena esplicazione delle attività realizzatrici sulla persona umana in seno alla stessa stessa.
Un danno/conseguenza, dunque, derivante, nello specifico, dalla sofferenza per la perdita parentale che va allegato e provato, oralmente e documentalmente ed anche attraverso il ricorso alla presunzione e alle nozioni di comune esperienza (quali la età del danneggiato e la gravità della conseguenza del fatto illecito – v. ex multis Cass. 12/06/2006 n° 1356 ed anche Cass. 1911/2015 n° 777).
Alle chiare considerazioni testé ricordate, sono seguite, da parte dei Supremi Giudici, altre decisioni che hanno confermato la diversità ontologica del danno esistenziale (di cui quello parentale costituisce una concreta estrinsecazione) rispetto a quello biologico, dettandone i confini (v. Cass. 23147/2013, Cass. 9231/2013, Cass. 19402/2013, Cass. 22585/2013, Cass. Sez. Lavoro 2187/2014, Cass. 1361/2014, Cass. 11851/2015), nel senso che l’uno non può considerarsi una sotto categoria dell’altro dove il Giudice, come già ricordato, deve verificare, nell’accertamento delle conseguenze dell’illecito, l’esistenza effettiva di un danno biologico in senso stretto (cioè la lesione della salute), di quello morale (cioè la sofferenza interiore) e di quello dinamico-relazionale (altrimenti definibile esistenziale e consistente nel peggioramento delle condizioni di vita quotidiana in un contesto in cui la lesione riguarda un diverso aspetto della salute -specifico diritto inviolabile costituzionalmente tutelato) con l’avvertenza che il primo può anche mancare e sussistere solo quest’ultimo (v. Cass. 14/09/2014 n° 531).
In questo senso, ammoniscono gli ermellini che non “fa bene il suo mestiere” il Giudice che non segue dette raccomandazioni, ad esempio facendo rientrare nell’alveo del pregiudizio biologico e da sofferenza interiore, come ulteriore comprensivo aspetto di esso, ad esempio il risarcito danno derivato dallo svilimento delle prospettive di una vita senza più successo (Cass. 28/07/2014 n° 17077) o considerando come normale conseguenza, risarcibile sotto forma di un generico danno relazionale, la perduta possibilità di intrattenere rapporti sociali a causa della invalidità permanente, che invece costituisce normale effetto della stessa invalidità, dato che qualsiasi persona affetta da un processo morboso grave (nella specie non paraplegia completa) non può che risentirne sul piano dei rapporti sociali.
Nelle citate sentenze del 2013, che è stato un anno favorevole per il riconoscimento definitivo del danno esistenziale, dopo gli indicati arresti giurisprudenziali, si è chiarito e ribadito che nel panorama risarcitorio del danno alla persona, sussistono ben tre distinte categorie di pregiudizio non patrimoniale, rappresentate dal danno biologico, dal danno morale e dal danno esistenziale: tre figure che rispondono a prospettive diverse di valutazione del medesimo evento lesivo, potendo causare nella persona della vittima come in quella dei familiari, un danno alla salute medicalmente accertabile, un dolore interiore, una significativa alterazione della vita quotidiana.
Danni diversi, come dicono espressamente Cass. 20292/2012, Cass. 22585/2013, Cass. 11851/2015, evidenziando molto acutamente come “al di là del formalismo delle categorie giuridiche….. il mondo del diritto abbia trascurato l’analisi fenomenologica del danno alla persona che altro non è che indagine sulla fenomenologia della sofferenza”, “una realtà naturalistica che fornisce la risposta all’interrogativo circa la reale natura e la vera essenza del danno alla persona: la sofferenza interiore, le dinamiche relazionali di una vita che cambia”. Aggiungendo, poi, come “una indiretta quanto significativa dimostrazione in tal senso potrebbe essere rinvenuta nel disposto dell’art. 612 bis C.P. con cui viene prevista la reclusione da sei mesi a quattro anni per chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare al medesimo un perdurante e grave stato di ansia e paura , ovvero da ingenerare un fondato timore per la incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona allo stesso legata da relazione affettiva, ovvero da costringerlo ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Di qui il consequenziale il passaggio alla autonoma “risarcibilità di ciascuno di detti diversi danni purché provati caso per caso, al di là di sommarie ed impredicabili generalizzazioni”.
A questo punto, non può non osservarsi come il dilemma esistenzialista della Cassazione appaia aver avuto una positiva composizione. Impressione confermata dalla recente sentenza della Cassazione 9320 del 08/05/2015 . Quest’ultima ha precisato ore rotundo che il danno risarcibile è rappresentato dalla lesione di un interesse giuridicamente protetto, ragione per cui esso non può mai consistere nella mera lesione del diritto in sé per sé considerato, ma deve provocare un concreto pregiudizio dato che il nostro ordinamento non prevede un damno sine iniura. In questo senso, può dirsi che la lesione di un solo interesse può provocare pregiudizi diversi, come la lesione di interessi diversi può provocare un pregiudizio unitario, con la conseguenza che il Giudice è tenuto, nella liquidazione del danno, ad aver riguardo all’individuazione dell’interesse protetto che si assume violato, alla perdita subita dal danneggiato (patrimoniale e non ) come pure alla quantificazione del bene perduto.
Nella fattispecie concreta, esaminata dalla S.C., le perdite subite dai familiari dell’uomo ucciso in un sinistro stradale erano consistite nella perdita della serenità derivante dalla rottura del vincolo familiare e nella perdita della salute (la malattia psichica conseguita all’evento luttuoso), ossia due beni oggettivamente diversi, il cui pregiudizio andava dunque liquidato separatamente, in applicazione del precetto di cui all’art. 1223 C.C., che impone una liquidazione parametrata alla “perdita subita”.
Ricordiamo che Cass. 557/2009, tra le altre, aveva negato autonomia al danno esistenziale.
Aggiunge la Cassazione 9320/15: “è vero che le richiamate sentenze di San Martino hanno affermato l’unitarietà del danno non patrimoniale, ma è anche vero che la predetta nozione di unitarietà significa che lo stesso danno non può essere liquidato due volte solo perché chiamato con nomi diversi, ma non significa tuttavia che quando l’illecito produce perdite non patrimoniali eterogenee, la liquidazione dell’una assorba tutte le altre”.
Di qui il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione: “il risarcimento del danno da fatto illecito presuppone che sia stato leso un interesse della vittima, che da tale lesione sia derivata una “perdita” concreta, ai sensi dell’art. 1223 C.C., e che tale perdita sia consistita nella diminuzione di valore di un bene o di un interesse. Pertanto quando la suddetta perdita incida su beni oggettivamente diversi, anche non patrimoniali, come il vincolo parentale e la validità psicofisica, il Giudice è tenuto a liquidare separatamente i due pregiudizi, senza che a ciò osti il principio di omnicomprensività del risarcimento del danno non patrimoniale, il quale ha lo scopo di evitare le duplicazioni risarcitorie, inconcepibili nel caso in cui il danno abbia inciso su beni oggettivamente differenti”.
Quindi il principio è sempre quello che si debbano evitare vere e proprie duplicazioni risarcitorie allorché si proceda ad un separato ed autonomo risarcimento di specifiche fattispecie di sofferenze patite dalla persona (tra cui il danno esistenziale): un principio ribadito nella più recente sentenza della Cassazione 19211 del 29/09/2015, laddove afferma come il danno biologico non assorbe sempre e comunque quello esistenziale, dovendo il Giudice considerare, purché effettivamente sussistenti e significativi, gli aspetti dinamico/relazionali della vicenda lesiva che danno contezza di un radicale cambiamento di vita del danneggiato a seguito dell’evento lesivo .
Conclusivamente, ci dice la Corte Regolatrice, nella sua più recente elaborazione giurisprudenziale, che, al fine di evitare vuoti risarcitori, il Giudice del merito dovrà apprezzare e liquidare, se oggetto del richiesto accertamento e se effettivamente sussistente, qualsiasi pregiudizio non patrimoniale anche diverso ed ulteriore rispetto a quello alla salute e scaturente dalla lesione di interessi della persona tutelati costituzionalmente. La quantificazione può anche essere, ma non necessariamente, operata attraverso il calcolo tabellare o altri criteri equitativi, ferma la necessità dell’adeguato ristoro.
In tale contesto, perde di vivacità, in un certo senso, il dibattito circa la configurazione delle singole voci o aspetti del danno non patrimoniale ricondotti (v. Cass. 19211/2015, Cass. 16197/2015) nella duplice dimensione del danno relazione/proiezione esterna dell’essere (più propriamente c.d. danno esistenziale) e del danno morale/interiorizzazione intimistica della sofferenza..
L’attuale assetto giurisprudenziale, in definitiva, è orientato a ritenere che il danno non patrimoniale si compendia di un danno biologico (salute) e di un danno morale soggettivo e, per così dire, oggettivo riguardando il primo la sofferenza interiore ed il secondo le dinamiche relazionali che cambiano, cioè un danno, per così dire, sdoppiato; alla cui liquidazione può procedersi con il c.d. sistema tabellare come confermato dalla recentissima Cass,15.10.2015 n. 20895.
È stato detto che il danno esistenziale nella ampia accezione di danno che attiene alle dinamiche relazionali della persona, rischierebbe così di essere indefinito ed atipico. Ma, dice la Cassazione, con un illuminante inciso che “se è così è perché ad essere indefinita e atipica è la sofferenza umana”. Ottobre 2015 Avv. Antonio Arseni
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