Il TAR del Lazio aveva ritenuto l’insussistenza dei presupposti per la concessione della misura cautelare, in quanto, “impregiudicata ogni questione di carattere pregiudiziale, mancavano i paventati profili di immediata lesività dell’atto impugnato, che costituisce infatti il primo segmento di una sequenza procedimentale che, a termini dell’art. 17 del d. l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, se anche tendenzialmente conformata dai criteri previsti nell’atto stesso (comma 3), è destinata a concludersi con un provvedimento di natura legislativa (comma 4), il quale, fermi naturalmente i limiti costituzionali, è per definizione libero nel contenuto e nel fine”.
Nel ricorso in appello si era sottolineato come il T.A.R. avesse erroneamente considerato la delibera del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012 alla stregua di un ordinario atto endoprocedimentale amministrativo (“il primo segmento”), inserito in un ordinario procedimento amministrativo (“sequenza procedimentale”), destinato a concludersi con un atto legislativo libero nel contenuto e nel fine.
In realtà, sono state completamente ignorate le caratteristiche assolutamente peculiari della procedura regolata dai commi 2, 3 e 4 dell’art. 17 del d. l. 95/2012.
L’assunto da cui muove il T.A.R. non può ritenersi applicabile in un caso in cui il procedimento si chiude non con un provvedimento amministrativo, impugnabile ex art. 113 Cost., ma con un atto legislativo, per definizione non suscettibile di impugnazione da parte del destinatario che ne sia pregiudicato il quale, invece, è legittimato ad impugnare il mero provvedimento amministrativo.
La decisione del T.A.R. nella peculiare fattispecie normativa, che prefigura una procedura mista, composta di atti amministrativi e di leggi, destinata a concludersi con un atto legislativo, condurrebbe, in sostanza, a negare in radice la tutela giurisdizionale, in palese contrasto con l’art. 1 del codice del processo amministrativo, che è una declinazione dell’art. 113 Cost., rispetto all’atto amministrativo, la delibera del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012, destinato dichiaratamente ed inequivocabilmente a segnarne il contenuto.
Il Consiglio di Stato ha respinto l’appello affermando che “appare del tutto condivisibile l’approccio del giudice di prime cure, che ha rilevato la carenza di lesività dell’atto impugnato attesa la sua naturale destinazione ad essere sostituito da un provvedimento di rango legislativo” e che “il sopravvenire del decreto legge 5 novembre 2012 n. 188, relativo al processo di riordino delle Province, lungi dal giovare all’argomentazione della parte appellante, lascia trapelare addirittura il venir meno dell’interesse alla coltivazione del ricorso anche in prime cure”.
Si tratta come si cercherà brevemente di dimostrare di un’ordinanza discutibile e contraddittoria.
Si afferma la carenza di lesività dell’atto impugnato attesa la sua naturale destinazione ad essere sostituito da un provvedimento di rango legislativo: se così fosse allora il ricorso stesso di primo grado doveva ritenersi inammissibile senza dover attendere un atto legislativo.
In realtà la situazione è ben diversa.
La delibera del Consiglio dei Ministri ha fissato i requisiti sulla base dei quali è stato avviato l’iter previsto dall’art. 17 del D. L. 95/2012 volto alla formulazione delle ipotesi di riordino dei CAL, delle proposte di riordino delle Regioni e della “iniziativa legislativa” del Governo che ha disposto il riordino, tramite accorpamento, delle Province.
Si tratta chiaramente di un atto immediatamente lesivo, in quanto vincolante e determinante le proposte delle regioni e quindi la successiva decisione del governo.
E non è un atto destinato ad essere sostituito da un atto legislativo.
Il D. L. 188/2012 non ha “sostituito” la deliberazione del Consiglio dei Ministri ma l’ha considerata come presupposto di riferimento per determinare il riordino delle Province.
L’art. 1 del D. L. 188/2012 peraltro ha sancito che “Ai fini del riordino delle province ai sensi dell’articolo 17 del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, si applicano i requisiti minimi stabiliti con la deliberazione del Consiglio dei Ministri nella riunione in data 20 luglio 2012, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 171 del 24 luglio 2012”.
E’ evidente che il legislatore ha operato un rinvio ai requisiti previsti dalla deliberazione, così considerando l’atto amministrativo deliberato dal Governo come atto autonomo e vincolante per i contenuti dell’art. 2.
Il legislatore non ha quindi in questo modo “sostituito” la delibera, ma ne ha richiamato i contenuti, senza neanche trasporli nell’atto normativo.
In altre parole, il legislatore ha evitato di indicare con atto avente forza di legge i requisiti minimi per il riordino delle Province (350.000 abitanti e 2.500 kmq), ma ha stabilito che fosse un atto amministrativo del Governo, autonomo, produttivo di effetti e pertanto immediatamente lesivo e impugnabile, a fissarli.
Principio questo confermato dall’art. 1, comma 1, del D. L. 188/2012 allorché, modificando l’art. 3 del Testo Unico degli Enti Locali, ha disposto: “Le province devono possedere i requisiti minimi stabiliti con legge dello Stato o, su espressa previsione di questa, con deliberazione del Consiglio dei Ministri”, confermando la precisa volontà di rimettere alla deliberazione la determinazione dei requisiti.
La contraddittorietà dell’ordinanza appare ancora più evidente tenendo conto della seconda parte della motivazione: “il sopravvenire del decreto legge 5 novembre 2012 n. 188, relativo al processo di riordino delle Province, lungi dal giovare all’argomentazione della parte appellante, lascia trapelare addirittura il venir meno dell’interesse alla coltivazione del ricorso anche in prime cure”.
Il Consiglio di Stato contemporaneamente ammette quanto contenuto nel ricorso e cioè il sostanziale diniego di giustizia e, addirittura anticipando l’esito del giudizio di merito di primo grado, cade nell’errore di considerare la trasformazione della delibera in atto normativo.
Come abbiamo già visto, l’art. 2 effettua un rinvio formale alla delibera che mantiene la sua natura di atto amministrativo evidentemente produttivo di effetti.
Cosa mai avrebbe impedito, se non fosse questa la volontà del legislatore, di indicare esplicitamente nella norma i requisiti senza operare il rinvio alla delibera?
Il caos normativo, la successione inammissibile e incostituzionale di decreti legge, senza i requisiti imposti dall’art. 77 della Costituzione – una situazione attuale (e non potenziale) di straordinarietà, urgenza e necessità – e per di più in materia costituzionale, coperta da riserva di legge formale dall’art. 72, comma 4, della Costituzione, comprendente le riforme ordinamentali, la palese violazione dell’art. 133 della Costituzione, avrebbero richiesto almeno maggiore tutela giurisdizionale, nel rispetto dei principi costituzionali
Tutela al momento negata sia con l’inopinato rinvio della trattazione dei ricorsi delle Regioni da parte della Corte Costituzionale sia da discutibili pronunce della giustizia amministrativa.
Ancora una volta tale decisione appare più preoccupata di evitare la trattazione di questioni dal forte impatto politico-istituzionale-mediatico che dalla reale volontà di garantire la tutela giurisdizionale.
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