Ne discutiamo con Luigi Pelliccia, avvocato giuslavorista del Foro di Siena e professore incaricato di Diritto della sicurezza sociale e diritto della previdenza sociale, docente di diritto del lavoro nella Scuola di specializzazione delle professioni legali e collaboratore pluridecennale di riviste specializzate.
Il governo Letta sta meditando di intervenire decisamente sulla riforma delle pensioni in vigore. A un anno e mezzo di distanza dalla sua approvazione, la legge Fornero ha davvero fallito tutti i suoi obiettivi o è riuscita comunque a portare qualche beneficio?
Nelle intenzioni del Governo, la legge n. 92/2012 avrebbe dovuto garantire risparmi per 20 miliardi di euro fino al 2020 sul versante della spesa pensionistica. Questa stima non poteva ovviamente tener conto delle risorse resesi poi necessarie per fronteggiare le problematiche sorte con riguardo ai cosiddetti esodati. Trattandosi però appunto di stime, con l’Inps che al momento ha confermato buoni livelli di contenimento per quanto attiene all’impatto del primo periodo di riforma della legge, non è possibile avere la certezza dei pronosticati valori. E’ però chiaro che, quanto meno a legislazione invariata, è abbastanza probabile che, fatto ovviamente salvo il diverso impatto conseguente alla non preventivata emergenza esodati, la cifra stimata divenga effettiva.
Sul tema degli esodati, il governo precedente a suo avviso ha fatto abbastanza per rimediare all’errore o ci sono ancora troppi contribuenti ai margini del welfare in età avanzata?
La problematica è stata sicuramente sottovalutata dal precedente Governo o quanto meno solo velatamente ipotizzata in ragione della scelta di operare un intervento correttivo del sistema pensionistico fortemente incisivo e senza la previsione di norme transitorie. Successivamente ha influito anche l’opinabile “balletto” delle cifre riferiti ai lavoratori anche solo potenzialmente interessati dalle più rigide disposizioni normative e, di conseguenza, destinati a rientrare loro malgrado nella citata categoria. Questo aspetto, legato alle successive, progressive valutazioni dell’impatto sui conti pubblici dei costi finalizzati a risolvere la problematica, hanno sicuramente inciso sulle scelte e sulle conseguenti modalità attuative del tentativo di recuperare al precedente errore. La soluzione scelta dal precedente Governo e per ora proseguita da quello attualmente in carica dovrebbe portare ad una definitiva risoluzione della problematica. Ciò non sta ovviamente a significare che vengano eliminate del tutto le situazioni in cui, anche per altre ragioni – occupazionali, sociali, territoriali – rimangano pur sempre soggetti di età prossima all’accesso alla pensione che rimangano confinati ai margini del nuovo sistema.
Tra le ipotesi di modifica alla riforma, quella più in voga è la proposta Damiano, ovvero l’uscita flessibile dall’età lavorativa, con penalizzazioni sotto i 65 anni e bonus al di sopra. Basterà per rendere il sistema meno incline a nuovi shock come quello degli esodati?
La proposta dell’onorevole Damiano non è una novità assoluta, essendo stata più volte ipotizzata una soluzione del genere, ossia un meccanismo di tipo bonus/malus, teso rispettivamente ad incentivare il prolungamento dell’accesso alla pensione e a disincentivare (ma non vietare) lo stesso. Nella realtà, anche se limitato alle sole donne e con termine dell’accesso al 31 dicembre 2015, già esiste una possibilità analoga. Infatti, le lavoratrici in possesso di almeno 57 anni di età e 35 di anzianità contributiva potranno accedere alla pensione in deroga agli attuali requisiti, ottenendo però un trattamento pensionistico calcolato totalmente con il sistema contributivo. La soluzione proposta da Damiano non dovrebbe avere significato impatto sui conti previdenziali, alla luce del fatto che la penalizzazione ipotizzata, oltre a rappresentare un buon “deterrente”, avrebbe il pregio di auto garantirsi la necessaria tenuta economica. Una tale soluzione, magari affiancata da altre disposizioni di più specifica e mirata regolamentazione – ad esempio, strumenti di sostegno al reddito e/o la staffetta generazionale – avrebbero buone possibilità di garantire il non riverificarsi di situazioni analoghe a quella degli esodati.
Quanto potrebbe pesare nelle mensilità dei pensionati coinvolti una modifica di questo genere?
Il calcolo è abbastanza semplice, ipotizzando la proposta di legge una diminuzione (o maggiorazione nelle ipotesi di posticipazione della pensione) percentuale sul trattamento pensionistico dovuto alla data del pensionamento. Ad esempio, l’accesso alla pensione a 62 anni di età (fatta ovviamente salva la compresenza di un’età anagrafica di almeno 57 anni) – che rappresenta la soglia di accesso minimo – con previsione di un importo di pensione di 1000 € lordi, sconterebbe una riduzione di 80 € (8%).
Per coprire i 130mila salvaguardati finora, basteranno le risorse che potrebbero accumularsi in questa maniera o ne serviranno altre? Il governo ha promesso di erogare le pensioni già in preventivo entro l’anno, ma le raccomandazioni dell’Ue in questo senso sembrano parecchio sconfortanti…
L’Inps sta accelerando il conteggio definitivo degli esodati. Al momento la problematica principale sul punto è l’esatta e conclusiva definizione da dare al termine, con immaginabili riflessi, quindi, sul correlato piano dei conti. In altre parole occorre individuare, in una definitiva condivisione, i soggetti da considerare “esodati”, pena un inevitabile progressivo ampliamento dei destinatari della salvaguardia pensionistica allo stato posta in essere. Stando a quanto garantito sia dal Ministero del Lavoro che dall’Inps, la citata salvaguardia è pienamente garantita dalle risorse messe appositamente a disposizioni e dai sottesi criteri di autorizzazione. Anche in ragione della recentissima decisione della Commissione Ue di uscita dell’Italia dalla procedura per deficit eccessivo (nella quale era entrata nel 2009), non dovrebbero esserci problemi sul piano dei conti riguardo le risorse stanziate per la gestione degli “esodati”.
Tra le misure possibili, figura anche il turnover tra giovani in cerca di occupazione e lavoratori prossimi alla pensione: oltre alla solidarietà generazionale che questo meccanismo potrebbe riportare, ci sarebbero dei benefici o il mercato si troverebbe più rigido?
Il ddl Santini-Ghedini del 21 marzo 2013 sulla staffetta generazionale (turnover tra giovani in cerca di occupazione e lavoratori vicini alla pensione) rappresenta la riposizione di almeno tre soluzioni normative già adottate, invero con scarsissimo risultato, nel passato. Premesso che l’idea, analogamente alle disposizioni di legge precedenti, è di per sé valida, lo è meno la previsione di un positivo impatto sui livelli occupazioni. A ben vedere, infatti, avendo anche quale riferimento le precedenti esperienze, è da dubitare che la soluzione ora proposta possa risultare risolutiva. Vi è comunque da dire che, rispetto al passato, l’attuale situazione del mercato del lavoro e le rimodulate previsioni di incentivi, potrebbero “solleticare” i soggetti interessati a creare i necessari equilibri per l’applicazione della ipotizzata solidarietà generazionale. Nella sostanza, il principale ostacolo alla soluzione proposta è rappresentato dalla necessità che tre soggetti (lavoratore “anziano”, datore di lavoro e giovane in cerca di occupazione) trovino il giusto equilibrio e la necessaria convenienza. Specie quest’ultima, quanto meno dal lato datoriale, potrebbe non essere adeguata in ragione dei possibili maggior costi che l’azienda dovrebbe sostenere.
A questo proposito, la legge sul lavoro ha scoraggiato il ricorso ai contratti cosiddetti atipici e ora invece sembra si stia per fare dietrofront: meglio avere molti giovani occupati ma precari, invece di lasciarli in naftalina? Così facendo, però, non si rischiano le storture del passato, con tipologie di somministrazione improbabili anche a lavoratori non più giovanissimi?
L’equilibrio e la condivisione dell’assioma “meglio più lavoratori precari che lavoratori garantiti ma inoccupati” rappresenta un terreno ed un esercizio di forte suggestione e di ampia e diversificata lettura ed analisi. Bisogna preliminarmente intendersi sul significato di precariato. Se questo è riferito a lavoratori occupati regolarmente, ma con contratti di lavoro a tempo determinato e comunque non standard, è un conto; se il termine è invece riferito, nel senso più dispregiativo dello stesso, a soggetti solo formalmente occupati nelle appena richiamate modalità, ma nei fatti sotto remunerati e, comunque, utilizzati in chiara elusione delle norme di legge che tutelano il rapporto di lavoro subordinato e parasubordinato, è un altro. A mio avviso, è sicuramente meglio un contratto di collaborazione a progetto reale e concreto che una inoccupazione “forzata” a causa dell’irrigidimento normativo sulla cosiddetta flessibilità in entrata. La riforma Fornero, in una -anche condivisibile – logica di fondo, ha operato una importante scelta su quest’ultima, scelta che, però, anche in ragione della persistente congiuntura economica, ha inevitabilmente compresso anche la “parte sana” del mercato del lavoro non standard, riducendo quindi eccessivamente le possibilità di trovare occupazione precaria, nel senso positivo del termine. La possibilità che l’attuale Esecutivo riveda, magari solo parzialmente, alcune delle rigidità della legge n. 92/2012, è a mio avviso positiva e propositiva in chiave rivitalizzante del mercato del lavoro, andandosi tra l’altro a collocare nel più ampio novero delle misure legislative a sostegno dell’occupazione al momento fortemente penalizzata. Il paventato rischio di ricaduta nelle “storture” del passato è chiaramente sempre dietro l’angolo e, come avviene per la quasi totalità delle previsioni legislative, non può essere evitato con il solo strumento normativo. Un idoneo equilibrio potrebbe essere forse raggiunto attraverso un più incisivo riallineamento delle disposizioni che incidono sui costi e sull’utilizzo di queste tipologie contrattuali (e, quindi, sul sottostante criterio di convenienza o meno ad adottare un modello contrattuale piuttosto che un altro) che, da un lato, sarebbero un buon deterrente all’utilizzo strumentale ed elusivo delle forme di lavoro c.d. atipiche, dall’altro garantirebbero il necessario equilibrio delle tutele e delle prerogative dei lavoratori interessati, attualmente poco organiche ed ancora disomogenee.
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