Ora, dunque, rimangono da chiarire due aspetti: da una parte, quali saranno i tempi per al realizzazione di questo programma di rinnovamento dell’ambito pensionistico e, dall’altra, in che modo il governo sceglierà di ritoccare la normativa vigente che tante proteste, in appena tre anni di vita, è riuscita a suscitare.
Ricorsi in sede giudiziaria, pronunce della Corte costituzionale, manifestazioni di piazza e decine di migliaia tra esodati, Quota 96 e non reintegrati che si sono ritrovati abbandonati da un sistema di protezione che hanno contribuito a costruire: il ciclone Fornero si è abbattuto con una forza inaudita sul quadro economico e sociale e non stupisce che ora quasi all’unanimità lavoratori più o meno anziani ne chiedano un cambiamento urgente e radicale.
I tempi. Come ha ribadito il ministro del Lavoro nei giorni scorsi, sembra ormai probabile che l’intervento più corposo venga riservato alla legge di stabilità 2016, che vedrà la luce alla fine dell’estate. Nel frattempo, entreranno a pieno regime alcune innovazioni già in corso sperimentale, come la busta arancione e i pagamenti al primo del mese per tutti gli utenti Inps, di qualsiasi provenienza.
Come si interverrà sulle pensioni. E’ Il Sole 24 Ore a riprendere le diverse ipotesi di revisione dell’impianto di welfare emerse negli ultimi due anni, a partire da un cambio dei requisiti minimi per la pensione, con l’introduzione di alcuni meccanismi in grado di rendere le maglie del pensionamento più larghe possibile, compatibilmente agli obiettivi di finanza pubblica. Come noto, esistono già da svariati mesi alcune proposte di legge ferme in Parlamento, che potrebbero essere ripescate e reintegrate nel nuovo piano di riforma.
Ipotesi 1: si valuta la possibilità di lasciare il lavoro con un minimo di 35 anni di contributi e un’età anagrafica compresa tra 62 e 70 anni. Si tratta di quanto previsto dal ddl Damiano, che prevede una decurtazione nell’assegno mensile entro i 66 anni di età, con conseguente maggiorazione fino ai 70, in base all’età in cui il lavoratore decide di lasciare l’occupazione.
Ipotesi 2: si tratta di quanto auspicato nei giorni scorsi dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti al Festival dell’Economia di Trento 2015. La possibilità, cioè, di inaugurare una proficua staffetta generazionale tra anziani ancora occupati e giovani in cerca di lavoro. L’avvicinamento alla pensione dovrebbe essere favorito mediante il ricorso ai Lavori socialmente utili, in riduzione progressiva fino al momento della pensione maturata. L’assegno erogato sarà ridotto in maniera proporzionale al lavoro part time svolto entro questi termini, per poi essere ricalcolato una volta che verrà effettivamente chiuso il percorso lavorativo.
Ipotesi 3: si tratta di un piano di ripristino delle Quote, in particolare Quota 100 per i dipendenti (62 anni + 35 di contributi) e 101 per gli autonomi (almeno 63 anni di vecchiaia). Si tratta di un meccanismo che potrebbe ridurre l’impatto dell’aumento di speranza di vita con cui vengono a modificarsi i requisiti contributivi e anagrafici.
Ipotesi 4: contributivo per tutti. Si tratta di una strada che potrebbe penalizzare molti lavoratori vicini al ritiro, che si troverebbero a subire tagli all’assegno anche del 30%. Naturalmente, questa ipotesi aprirebbe a ulteriori complicanze sul fronte dei contratti, specie nel pubblico impiego, per ricostruire l’intera storia contributiva del soggetto.
Ipotesi 5: opzione donna. Si tratta di un regime già in vigore che consente alle donne di andare in pensione con 35 anni di contributi e 57 anagrafici o 58 per le autonome, con un assegno completamente contributivo e le decurtazioni di cui si diceva sopra. Si tratta di una possibilità concessa fino al 2015, ma allo studio attualmente c’è una proposta di legge per estendere questa eccezione fino al 2018.
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