Il testo del disegno di legge che dovrebbe ridefinire l’accesso e le condizioni di esercizio della professione forense, approvato alla Camera il 31 ottobre scorso, è ora passato al vaglio del Senato.
Nonostante, quindi, scioperi e contestazioni da parte degli avvocati, l’iter di approvazione sta seguendo il suo naturale corso, noncurante delle perplessità (e paure) di chi questa professione la svolge ogni giorno e meglio di chiunque altro può comprendere – a priori – quelle che potrebbero essere le conseguenze di certe modifiche.
C’è poi da dire che, mentre si dà voce a quelle che sono i motivi di protesta degli avvocati, rimangono sommerse le reazioni di studenti e praticanti che, dopo aver investito anni in un percorso di studio e formazione, si ritrovano dinanzi ad una strada sbarrata o, comunque, piena di ostacoli. Il fatto che se ne parli poco però, non significa che le reazioni non ci siano.
Ne ho discusso qualche giorno fa con Maria Chiara Raimondi, portavoce del gruppo NO alla RIFORMA FORENSE, tra i promotori e firmatari di una lettera indirizzata al Presidente e ai componenti della Commissione Giustizia e ai Presidenti dei Gruppi Parlamentari del Senato, con l’intento di portare alla loro attenzione difficoltà, preoccupazioni e, soprattutto, tangibili proposte di emendamento.
I nodi fondamentali che interessano i giovani futuri colleghi, sono ovviamente quelli che riguardano l’accesso alla professione, contenuti nel Titolo IV e che appaiono, si legge, orientati “ad aggravare gli oneri in capo ai tirocinanti e contestualmente a rendere maggiormente difficoltoso l’accesso alla professione forense per i giovani laureati”.
In particolare, i motivi di lamentela riguardano l‘art. 43, il quale prevede la frequenza obbligatoria di corsi di formazione durante il periodo di tirocinio, con fondato timore che questi, oltre a togliere tempo alla quanto mai necessaria pratica sul campo (negata dalle facoltà universitarie e ridotta a 18 mesi) possano costituire esclusivamente un aggravio di spese a carico dei giovani praticanti.
In secondo luogo, i firmatari della lettera si interrogano sul perché dello stralcio della disposizione che avrebbe previsto la periodicità semestrale dell’esame di Stato, chiedendo che sia comunque introdotta nel testo una disposizione che disciplini la periodicità dell’esame. A tal proposito, è interessante evidenziare una proposta avanzata dai firmatari della lettera: permettere ai candidati che siano risultati idonei alla prova scritta, di poter sostenere solo l’orale per un periodo di 3 anni (periodo forse un po’ eccessivo).
Altro motivo di contestazione è il comma 7 dell’art. 46, che nelle ultime settimane ha fatto molto discutere: l’esclusione dei codici commentati dall’esame di avvocato. La considerazione che si legge nel testo della lettera è tanto semplice quanto esaustiva: chiedere ad un candidato di redigere un parere motivato senza il codice annotato con la giurisprudenza sarebbe come chiedere ad un chirurgo di “operare senza ferri”. Sul punto, non posso che essere in accordo. Più che altro, non riesco a trovare la ratio che possa giustificare una tale decisione, se non quella di rendere infattibile un elaborato, togliendo ai candidati i mezzi fondamentali ed obbligandoli – a meno di modificare radicalmente le modalità di svolgimento dell’esame – ad un estenuante (quanto inutile) studio mnemonico degli orientamenti giurisprudenziali, ammesso che sia possibile farlo.
Altre considerazioni per il comma 3 dell’art. 46 che modifica radicalmente le materie oggetto di prova orale, prevedendo come obbligatorie sia il diritto civile che il diritto penale nonché entrambe le procedure. Se i promotori firmatari della lettera evidenzino la difficoltà pratiche di poter essere adeguatamente formati dal dominus su entrambe le branche del diritto, dal mio canto ritengo che questa previsione sia un po’ anacronistica, proprio ora che si fa un gran parlare della specializzazione come salvezza e futuro dell’avvocatura. Quale avvocato specializzato sarà in grado di formare a 360 gradi un praticante? E come si può auspicare la specializzazione se la si ritarda di anni obbligando le giovani leve ad una formazione generalista per poter ottenere l’abilitazione?
Ultimo, ma non ultimo, punto dolente della riforma sono considerati i commi 8 e 9 dell’art. 21 che prevedono l’obbligatoria iscrizione alla Cassa Forense contestuale con l’iscrizione all’albo degli avvocati, lasciando al potere regolamentare della Cassa stessa, la previsione di agevolazioni ed esenzioni. I promotori della lettera auspicano una modifica della disposizione e che sia la legge stessa, e non la Cassa Forense, a prevedere agevolazioni per i giovani avvocati quali, ad esempio, una totale esenzione dal versamento dei contributi per i primi 2 anni di attività.
Che la riforma (della professione come dell’università) sia necessaria, è innegabile. Ma altrettanto necessario è aprire gli occhi verso i giovani, soprattutto quelli che si stanno impegnando nel dare il loro sostegno e il loro apporto per un risultato migliore e più equo. E questo impegno deve essere tenuto presente tutte le volte che si pensa ai laureati in legge o ai praticanti avvocati come a ragazzi che, non riuscendo in altri progetti, hanno ripiegato sull’avvocatura, creando un pericoloso soprannumero e una scomoda concorrenza che vanno a tutti i costi contrastati. Le cose, questa lettera ne è la prova, stanno diversamente.
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