Riforma della dirigenza pubblica: dirigenti a servizio della politica contro la Costituzione

La riforma della dirigenza pubblica approvata nella seduta di Consiglio dei Ministri del 25 agosto tradisce le intenzioni che si celano dietro alle parole di esaltazione della meritocrazia.

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La riforma della trasparenza

La riforma della normativa sulla trasparenza, il D.Lgs. 33/2013 riscritto in parte dal D.Lgs. 97/2016, mira ad introdurre in Italia un vero e proprio Freedom of Information Act (FOIA), in analogia a quanto fatto nei Paesi del Nord Europa ed anglosassoni, richiedendo un profondo ripensamento delle modalità operative e mettendo la trasparenza dell’operato della pubblica amministrazione al centro della propria attività.L’elemento più rilevante della riforma, tale da indurre le amministrazioni a modificare organizzazione e comportamenti, amplia l’accesso civico, che divienediritto di ogni cittadino di pretendere la pubblicazione nei siti istituzionali degli atti e delle informazioni da rendere obbligatoriamente pubblici e ottenere gratuitamente dati, informazioni e documenti prodotti. L’eventuale rigetto delle domande di accesso dovrà essere sempre molto ben motivato.La riforma punta anche alla semplificazione dei troppi adempimenti richiesti dalla normativa: viene eliminato il Piano triennale per la trasparenza e l’integrità, essendo sufficiente il Piano triennale della prevenzione della corruzione; alcuni adempimenti non saranno più richiesti, come la produzione dell’elenco semestrale dei provvedimenti in tema di appalti e concorsi; alcune pubblicazioni sui portali, nella sezione “Amministrazione trasparente”, potranno effettuarsi tramite link già presenti nei siti, evitando duplicazioni; i comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti saranno esentati da una serie di adempimenti su cui si attendono le linee guida che emanerà l’Anac; vengono estesi gli obblighi di pubblicità incombenti sugli organi politici anche ai dirigenti pubblici.   Luigi Oliveri Dirigente amministrativo della Provincia di Verona, collaboratore del quotidiano “Italia Oggi”, autore di molteplici volumi sul Diritto amministrativo e degli Enti locali, docente in corsi di formazione.

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La dirigenza è ridotta a servire i politici di turno senza tenere conto dei principi costituzionali e in particolare della disposizione contenuta nell’art. 98, co. 1, della Costituzione repubblicana che testualmente recita “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” a meno che non si ritenga che i politici di turno rappresentano la Nazione. Sul punto ci sarebbe da dire in primo luogo che la Nazione è concetto troppo elevato che non lascia assolutamente desumere che essa si circoscriva alla classe di potere.

Del resto in una democrazia matura ed effettiva tale classe di potere è, inevitabilmente, mutevole sulla base della volontà popolare espressa in libere consultazioni elettorali. In secondo luogo andrebbe posto l’accento sul significato di una riforma che, sebbene presentata come l’illuminante espressione della modernità, in realtà si basa sui principi medievali del clientelismo e della subordinazione, o meglio sottomissione, della classe dirigenziale al volere della politica, intesa questa, tra l’altro, nel suo peggiore significato.

E’ del tutto scontato che non ci può essere democrazia se uno dei poteri in discussione cerca di prevalere sull’altro senza riconoscerne il valore e l’importanza per mantenere in piedi il sistema dei rapporti che sorreggono l’impianto ordinamentale.

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I punti cardine della riforma

I punti cardine su cui si basa la riforma sono, a grandi linee, i seguenti: Ruolo dirigenziale unico; qualifica dirigenziale unica; incarichi dirigenziali a termine per la durata di quattro anni prorogabili per altri due anni; reclutamento dei dirigenti tramite concorso pubblico o corso-concorso cui possono accedere soltanto coloro che sono in possesso di determinati requisiti; possibilità di accesso alla dirigenza di soggetti non appartenenti ai ruoli della dirigenza tramite ricorso a procedura comparativa; istituzione, presso il Dipartimento della Funzione Pubblica, delle Commissioni, di nomina ministeriale e dunque politica, che si occuperanno delle procedure di selezione dei dirigenti; mobilità dei dirigenti previa predeterminazione dei criteri e dei requisiti da richiedere; licenziabilità dei dirigenti che non ottengono incarichi dirigenziali per un determinato periodo di tempo; abolizione della figura del segretario comunale e istituzione di quella del dirigente apicale; rinnovabilità dell’incarico di dirigente apicale per un altro periodo se tale incarico è espressamente rinnovato entro novanta giorni dall’insediamento della nuova amministrazione; valutazione dei risultati, peraltro già in atto esistente, e connessa disciplina del merito, anch’essa in atto esistente; responsabilità amministrativo-contabile dei dirigenti anche per le scelte gestionali che derivano da direttive dell’organo politico.

Non si comprende come si possa sostenere l’annunciata autonomia della dirigenza se, pur a seguito di una procedura predeterminata, la scelta del soggetto cui affidare la direzione di un Ufficio, e in via preventiva i requisiti di ammissione alle selezioni, rimane attribuita al potere discrezionale della politica.

L’intero impianto della riforma si basa infatti sulla configurazione di una tipologia contrattuale a termine, della durata di quattro anni prorogabile per altri due anni in presenza di valutazione positiva, che smentisce, inesorabilmente, le dichiarazioni circa la permanenza nelle pubbliche amministrazioni di rapporti lavorativi a tempo indeterminato non soltanto per coloro che in atto ricoprono la figura dirigenziale ma anche per coloro che acquisiranno la qualifica a seguito dell’espletamento di apposito concorso o del corso-concorso nelle ipotesi previste e nelle varianti che tali procedure presentano.

Segretari comunali addio

La riforma, si sa, abolisce inoltre i segretari comunali e, se iscritti nelle fasce A) e B), li inserisce nel ruolo dei dirigenti degli enti locali senza alcuna garanzia di diritto al lavoro. In un momento successivo vengono inseriti nel ruolo anche i segretari comunali in fascia C) che abbiano effettuato un periodo di due anni come funzionario nei comuni di minori dimensioni.

Dirigenza statale, dirigenza regionale e dirigenza degli enti locali

Ma ciò che appare davvero devastante è la differenza di trattamento esistente tra le varie categorie di dirigenti distinti nei Ruoli della dirigenza statale, della dirigenza regionale e della dirigenza degli enti locali nel quale ultimo ruolo vengono anche inseriti, come sopra accennato, i segretari comunali iscritti nelle fasce A) e B).

Infatti, mentre per i dirigenti che occupano una posizione nelle amministrazioni statali, regionali e anche locali, è prevista una certa garanzia di permanenza seppure nel rispetto del principio della rotazione  e delle prescritte procedure di reclutamento e, purtroppo talvolta, di immotivato demansionamento, per i dirigenti già appartenuti alla categoria dei segretari comunali non si offre alcuna garanzia non essendo essi mai stati inquadrati in alcuna amministrazione locale come dipendenti delle stesse.

L’appannaggio, poi, della dirigenza apicale, che può essere loro attribuita, non costituisce un obbligo per le amministrazioni locali se non per i primi tre anni. Il decreto infatti prevede che la dirigenza apicale possa essere attribuita ai dirigenti prescindendo dalla loro provenienza e pertanto non è escluso che sia attribuita sulla base dei requisiti richiesti, pur a seguito della prescritta procedura, a dirigenti che prima della riforma erano coordinati e diretti dagli attuali segretari comunali. Inoltre, nei comuni superiori ai 100.000 abitanti e nelle città metropolitane, è possibile prevedere il direttore generale in alternativa al dirigente apicale.

Il ruolo unico

Ma non basta: il ruolo unico tanto esaltato, in realtà, oltre a scomporsi nei distinti ruoli come sopra detto, esclude una serie di dirigenti appartenenti alla sanità, alla carriera diplomatica, alla carriera prefettizia, a quella della magistratura e non solo. Per non parlare delle sezioni speciali, di possibile istituzione per le categorie dirigenziali professionali e tecniche individuate dal Regolamento di cui all’articolo 28-sexie del D.Lgs. 165/2001 nonché dei ruoli delle Autorità Indipendenti.

E’ dunque una riforma di una parte della dirigenza e non di tutta la dirigenza e rivela così l’obiettivo di differenziare e di creare le premesse per affidare gli incarichi a persone di fiducia della politica e non certamente ai dirigenti che si sono distinti per capacità ed efficienza. Allora addio alla meritocrazia, siamo in presenza di un meccanismo che, lungi dalla garanzia di imparzialità e di indipendenza dei dirigenti pubblici, in realtà premia gli amici dei politici di turno.

Sicché, sorge naturale il convincimento che il lungo tempo trascorso all’insegna degli ideali della democrazia è stato speso, secondo i risultati che oggi si osservano, per la costruzione di un’illusoria forma di modernità che scardina i principi democratici e instaura il servizio nei confronti dei padroni della politica.

Va in ultimo evidenziato che, tenuto conto della facile licenziabilità di coloro che dopo il decorso di un arco temporale non hanno ottenuto alcun incarico dirigenziale, il sistema che con la riforma si vuole instaurare, sotto le mentite dichiarazioni di indipendenza e di miglioramento dell’ efficacia, apre uno scenario di selvaggia fuoriuscita senza la garanzia di alcun diritto, che non ha precedenti nella storia contemporanea e nel diritto del lavoro di questa epoca.

Violata la Costituzione?

Chiara violazione dunque delle disposizioni della Costituzione mirate alla tutela del lavoro ottenuto a seguito di un concorso pubblico, alla continuità del lavoro, alla certezza del diritto e all’uguaglianza di tutti. Violata anche, sulla base del clientelismo che si instaura nei confronti della politica, la norma secondo la quale (art. 97, co. 2, Cost.) i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione. Non v’è dubbio infatti che il sistema che si istituisce con la riforma  non mira a creare l’indipendenza dei dirigenti dalla politica ma ad instaurare un regime clientelare compatibile soltanto con forme di governance fondate sull’autoritarismo antidemocratico.

In contrapposizione a tale sistema di selezione che raggiunge il suo apice in regole che sfociano nella facile licenziabilità nei riguardi di coloro che, come sopra detto, non riescono ad ottenere un incarico dirigenziale, pur non avendone alcuna colpa, la riforma prevede l’ingresso nella dirigenza, a seguito di procedure comparative e nei limiti percentuali indicati, di soggetti non appartenenti al ruolo della dirigenza, purché dotati dei requisiti culturali e di esperienza in taluni ambiti professionali, ritenuti idonei a ricoprire determinate posizioni dirigenziali.

In tal modo risulta evidente la sperequazione che si intende effettuare tra dirigenti pubblici e soggetti esterni nonché lo stravolgimento dei principi costituzionali secondo i quali ai pubblici uffici si accede per concorso dai quali si desume anche la tutela che l’ordinamento riserva ai vincitori di concorso. Rimane salva, tra l’altro, la facoltà di assumere tramite la procedura di cui all’art. 110 del D.Lgs. 267/2000 nelle percentuali ivi stabilite.

E’ altresì evidente l’intenzione non tanto di assicurarsi la copertura dei posti dirigenziali con le unità di personale a disposizione bensì di garantirsi un mercato di dirigenti pubblici in modo da poter contare in ogni momento su un’offerta considerevole senza correre il rischio di dover contrattare con loro da pari.

Difficile appare inoltre la mobilità dei dirigenti, con contestuale cessione del contratto all’amministrazione che ha indetto la procedura, in quanto sottoposta alle regole che ciascuna amministrazione si darà per determinare i requisiti ritenuti necessari per il reclutamento dei dirigenti attraverso tale istituto e sulle libere scelte della politica.

Poste le condizioni attuali, per le contraddizioni e strafalcionerie di cui è pervaso lo schema di decreto legislativo sulla riforma, è naturale auspicare che il sistema così delineato subisca una profonda rivisitazione per adeguarlo ai canoni di uno Stato di diritto e di un ordinamento giuridico basato sui principi democratici cui gli italiani non hanno ancora rinunciato.

Lucia Maniscalco

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