Riforma del Titolo V: si torna al passato

Eccola puntuale, a fine legislatura, la proposta di riforma del titolo V della Costituzione.

Licenziata a tarda notte, sull’onda emotiva degli scandali che ogni giorno arricchiscono la cronaca e che appaiono inarrestabili, tanto da farla apparire come una norma d’emergenza, la proposta del Governo mina in profondità il sistema delle autonomie, addirittura contraddicendo nella sostanza il principio fondamentale di riconoscimento e tutela sancito dall’art. 5 della Costituzione.

La proposta del Governo interviene a undici anni di distanza dalla precedente revisione attuata con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 dopo un lungo iter normativo: il Senato, con deliberazione adottata l’8 Marzo 2001, ha approvato la Legge Costituzionale n. 3/2001 con una maggioranza inferiore a quella richiesta (maggioranza qualificata dei due terzi dei membri delle Camere) e per questo tale legge è stata sottoposta a referendum confermativo il 7 ottobre 2001, il quale si è concluso con esito favorevole all’approvazione della legge (il 64% dei votanti si è espresso per il sì pari a 10.433.574 cittadini) che è poi entrata in vigore il mese successivo.

Le dichiarazioni del Governo giustificano e minimizzano la portata contro-riformatrice della proposta.

Il Presidente del Consiglio Monti: “Il nostro governo si è dedicato al compito di prendere misure per accrescere la competitività dell’Italia e rimuovere alcuni impedimenti strutturali, ma abbiamo riscontrato che un ostacolo tra i molti risiede in alcuni particolarità istituzionali, in particolare alcuni aspetti del Titolo V della Costituzione“.

Il comunicato ufficiale del Governo: “L’intervento si è reso necessario viste le criticità emerse nel corso di questi anni; tuttavia, dato il breve spazio di legislatura ancora a disposizione, l’obiettivo è quello di apportare modifiche quantitativamente limitate, ma significative dal punto di vista della regolamentazione dei rapporti fra lo Stato e le Regioni”.

Il Ministro per la Pubblica Amministrazione, che si propone come artefice del disegno riformatore: “’Vorrei  che i Presidenti delle Regioni riflettessero sul testo del disegno di legge costituzionale che sarà inviato alla Conferenza delle Regioni quando sarà presentato in Parlamento. Si renderanno conto che non si tratta di una controriforma e tantomeno di un golpe. Si tratta invece di colmare lacune e correggere criticità della riforma del 2001 un decennio dopo: un tagliando fatto con cura per far funzionare meglio la macchina. E’ un tassello del riordino del territorio, dopo il nuovo assetto delle Province, fatto senza cedere a spinte demagogiche ma per riorganizzare lo Stato sul territorio”.

Non v’è dubbio che la riforma del 2001, soprattutto nell’individuazione delle materie di competenza statale o regionale, necessitasse di una rivisitazione.  Il crescente conflitto dinnanzi alla Corte Costituzionale lo testimonia.

E’ condivisibile ritenere che debbano spettare allo Stato le decisioni su grandi reti di trasporto e di navigazione, commercio con l’estero, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia nonché in via esclusiva i rapporti internazionali e con l’Unione Europea.

Ciò che non può essere condivisa è l’impostazione di fondo che ispira la riforma: il principio di supremazia dello Stato su tutte le materie, a prescindere dalla competenza legislativa.

Integrare il primo comma dell’art. 117: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” con la precisazione: “Il legislatore statale adotta gli atti necessari ad assicurare la garanzia dei diritti costituzionali e la tutela dell’unità giuridica od economica della Repubblica” significa legittimare un intervento illimitato dello Stato in ogni ambito.

Il richiamo alla tutela dell’unità giuridica della Repubblica, intesa in senso estensivo, giustificherebbe ogni intervento statale.

Prevedere una “clausola di supremazia” significa mettere nero su bianco un principio inaccettabile, già applicato nei fatti dalla Consulta ad esempio nei casi di coordinamento della finanza pubblica e del settore tributario: quello per cui alla fine, prevalgono le scelte dello Stato in ogni materia.

Come scrive Alessandro Candido in “La controriforma del Titolo V” sul Blog  Diritti regionali “La proposta di modifica dell’art. 116 Cost., mutuando la formula del nuovo testo dell’art. 119 come risultante dalla legge costituzionale 1/2012, in vigore dal 2014, rende esplicito il principio in base al quale anche le Regioni a Statuto speciale hanno l’obbligo di rispettare l’equilibrio di bilancio e il patto di stabilità.

La nuova formulazione dell’art. 117, comma 3, disporrebbe che “nelle materie di legislazione concorrente le Regioni esercitano la potestà legislativa nel rispetto della legislazione dello Stato, alla quale spetta di disciplinare i profili funzionali all’unità giuridica ed economica della Repubblica stabilendo, se necessario, un termine non inferiore a centoventi giorni per l’adeguamento della legislazione regionale”.

Inoltre, l’art. 127, comma 1, nella proposta di riformulazione, ammetterebbe la possibilità di impugnazione governativa anche in seguito all’ “inutile decorso del termine fissato ai sensi dell’ultimo periodo del terzo comma dell’articolo 117”.

A ben vedere, la norma replica – sia pure con un limite temporale diverso – quanto già si disponeva nell’art. 10, co. 2 della nota legge Scelba (l. n. 62 del 1953), ove si prevedeva che, una volta che lo Stato avesse stabilito i principi fondamentali delle materie all’interno di apposite leggi-quadro (art. 9), i Consigli regionali avrebbero dovuto “portare alle leggi regionali le conseguenti necessarie modificazioni entro novanta giorni” (pena, in quel caso, l’abrogazione delle norme regionali contrastanti con i mutati principi)“.

Riprendendo il comunicato ufficiale del Governo, l’intervento si è reso necessario viste le criticità emerse nel corso di questi anni; tuttavia, dato il breve spazio di legislatura ancora a disposizione, l’obiettivo è quello di apportare modifiche quantitativamente limitate, ma significative dal punto di vista della regolamentazione dei rapporti fra lo Stato e le Regioni.

L’intervento riformatore si incentra anzitutto sul principio dell’unità giuridica ed economica della Repubblica come valore fondamentale dell’ordinamento, prevedendo che la sua garanzia, assieme a quella dei diritti costituzionali, costituisce compito primario della legge dello Stato, anche a prescindere dal riparto delle materie fra legge statale e legge regionale. E’ la cosiddetta clausola di supremazia presente in gran parte degli ordinamento federali.

Si tende, inoltre, ad impostare il rapporto fra leggi statali e leggi regionali secondo una logica di complementarietà e di non conflittualità; per questo sono previste alcune innovazioni particolarmente incisive. Si inseriscono nel campo della legislazione esclusiva dello Stato alcune materie che erano precedentemente considerazione della legislazione concorrente: il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, le grandi reti di trasporto e di navigazione, la disciplina dell’istruzione, il commercio con l’estero, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia.

Inoltre nella competenza statale rientrano anche materie sino ad ora non specificamente individuate nella Costituzione e che sono state oggetto, in questi anni, di contenzioso costituzionale. Si tratta di materie suscettibili di un’autonoma configurazione e riferibili alla competenza esclusiva dello Stato: la disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche e la disciplina generale degli enti locali. La materia del turismo è stata altresì trasferita dalla competenza esclusiva delle regioni alla competenza concorrente dello Stato e potrà quindi introdurre una sua disciplina.

Si attribuisce alla legge statale un ruolo più duttile ed ampio nell’area della legislazione concorrente, prevedendo che spetta alla legge dello Stato non più di stabilire i problematici “principi fondamentali”, bensì di porre la disciplina funzionale a garantire l’unità giuridica ed economica della Repubblica. Si dispongono, poi, confini meno rigidi fra potestà regolamentare del Governo e potestà regolamentare delle regioni, prevedendo in modo semplice che lo Stato e le regioni possono emanare regolamenti per l’attuazione delle proprie leggi.

La proposta del Governo presenta varie criticità per tempi, modalità e contenuti.

Si inserisce, infatti, nel pieno della polemica e della legittima indignazione dell’opinione pubblica, scossa dalle ripetute notizie di scandali e ruberie che investono le Regioni.

Sull’onda emotiva del momento, si vorrebbe intervenire radicalmente sull’assetto costituzionale dello Stato, con un ritorno al centralismo senza precedenti.

Non è accettabile che si proceda a modifiche costituzionali per dare risposte alle contingenze del momento.

La corruzione e il malcostume provengono dagli uomini che indegnamente hanno usato le Istituzioni a loro vantaggio personale; si combattono con gli strumenti propri di uno Stato democratico: la prevenzione e la repressione; non certo con la soppressione delle autonomie.

Non è il fallimento delle autonomie, ma di una parte di coloro che hanno avuto il mandato di rappresentarle.

Si fatica a capire come faccia realisticamente un governo, per quanto di elevato profilo, a concepire e scrivere una riforma così importante in meno di una settimana, che dovrebbe essere approvata in doppia lettura in poco meno di sei mesi.

Una riforma che ci riporta indietro, cancella di fatto decentramento e autonomia, ponendosi in contraddizione con le norme in fase di attuazione del cosiddetto federalismo fiscale.

Una riforma di tale portata delle Regioni, presentata in questo momento e in queste condizioni temporali, unitamente al decreto legge 10 ottobre 2012 n. 174, emanato d’urgenza su sollecitazione della stessa Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, con il documento del 27 Settembre 2012, per incidere pesantemente sui costi della politica regionale per rafforzare il sistema dei controlli, significa di fatto costringere il Parlamento a votare qualunque cosa, senza alcun serio dibattito, pena l’assunzione di responsabilità del fallimento del tentativo di riforma, che oggi equivarrebbe ad una chiamata di correità col malaffare regionale.

Il precedente di pochi mesi fa, con l’approvazione della Legge Costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, che ha introdotto il principio del pareggio di bilancio nella Costituzione, nel silenzio della stampa e senza alcun dibattito e coinvolgimento dell’opinione pubblica, dovrebbe allarmare.

Già con la riforma costituzionale già approvata è stata fortemente rafforzata la centralità dello Stato nel sistema di finanza pubblica riducendo l’ambito di autonomia delle Regioni e degli Enti Locali, come già illustrato in un precedente intervento.

Il rafforzamento della centralità dello Stato si è già attuato con tale riforma sotto molteplici profili:

1)     l’ “armonizzazione dei bilanci pubblici” diventa materia di potestà esclusiva dello Stato e non più di competenza concorrente con le Regioni come oggi previsto;

2)     il principio del concorso delle Regioni e degli Enti Locali all’adempimento dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Unione Europea diventa principio costituzionale;

3)     il principio dell’“equilibrio” valido per i conti pubblici dello Stato viene esteso anche ai bilanci di Regioni, Province e Comuni;

4)     il ricorso all’indebitamento per le spese di investimento può essere operato da parte degli enti locali “con la contestuale definizione di piani di ammortamento e a condizione che per il complesso degli Enti di ciascuna Regione sia rispettato l’equilibrio di bilancio”.

Lo Stato, pertanto, non avrà più dal 2014 la propria competenza in materia limitata ai soli principi fondamentali, ma sarà estesa anche alla normativa di dettaglio.

Eserciterà quindi una competenza di grado più elevato rispetto a quella del ‟coordinamento della finanza pubblica”, cui lo Stato oggi ha fatto riferimento ai sensi dell’art. 119, secondo comma, per legittimare i vincoli, spesso stringenti all’autonomia finanziaria delle Autonomie territoriali.

Non sarà più facilmente possibile per le Regioni ricorrere alla Corte Costituzionale per vedere tutelata la propria autonomia finanziaria rispetto alle disposizioni anche di dettaglio previste dalle norme statali.

In più, come conseguenza del riconoscimento costituzionale come potestà esclusiva dello Stato e non più come competenza concorrente, si avrà l’attribuzione contestuale allo Stato della potestà regolamentare in materia, in forza del comma sesto del medesimo articolo 117 e il conseguente venir meno della competenza regolamentare delle Regioni.

Con la riforma del titolo V proposta dal Governo con il disegno di legge approvato il 9 ottobre si sancisce pienamente e definitivamente la supremazia dello Stato.

Bisognerebbe riaffermare con forza la centralità del Parlamento ed in generale delle assemblee elettive.

È ora di chiedersi, infatti – come sottolinea in un suo intervento Giacomo Canale, consigliere delle Corte Costituzionale – , se uno dei reali fattori di criticità della cosiddetta Seconda Repubblica non sia stato proprio la compressione degli spazi politici delle assemblee elettive a vantaggio del Governo, con la produzione legislativa di fatto lasciata alla decretazione d’urgenza del Governo, aggravata dalla costante e ripetuta proposizione della questione di fiducia per evitare o limitare l’introduzione di emendamenti parlamentari in fase di conversione in legge dei decreti.

Assicurare la governabilità non può significare un Governo che decide, con Camere che ratificano.

Né questo modello può giustificarsi con l’emergenza economica o con la questione morale.

Allora, è bene che il Parlamento non deleghi al Governo anche il compito di riscrivere la Costituzione, né dovrebbe consentirsi all’esecutivo di intervenire con decreto legge su questioni coperte da riserve di statuto o comunque di legge regionale.

Non si risponde all’indignazione dell’opinione pubblica con la controriforma del sistema regionale e con il ritorno al centralismo.

L’indignazione deriva dal malcostume politico, a qualunque livello si riscontri, non dalle autonomie.

Ecco perché bisogna assolutamente distinguere i necessari interventi di razionalizzazione  della spesa pubblica relativa al funzionamento degli organi istituzionali di qualsiasi livello territoriale, e in particolare quella relativa al sistema dei rimborsi ai gruppi parlamentari e ai gruppi consiliari regionali, dalla configurazione dell’assetto territoriale della Repubblica, fattore di democratizzazione e partecipazione, come testimonia il fatto che l’adozione di forme di stato regionali e/o federali è stato un dato comune di tutti gli ordinamenti europei occidentali che sono usciti da esperienze totalitarie e autoritarie.

Se non si opera questa netta distinzione il rischio è altissimo.

Per questo continuiamo a ribadire che proprio in questa fase in cui si registra la evidente difficoltà della politica a svolgere il suo ruolo di interpretare e tradurre in azioni amministrative e di governo i bisogni della gente, occorre ripartire dai territori e dalle amministrazioni locali, quali sedi storiche e naturali di esercizio della democrazia partecipata, evitando il ritorno al centralismo statale.

Carlo Rapicavoli

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