In tal senso, infatti, le pene previste per i reati associativi (ai sensi della legge 654/1975 in linea con la Convenzione di New York – modificata dalla legge 205/1993) sono estensibili anche alla rete, toccando tutte le comunità virtuali, dai blog alle chat, ai social network, che sono fautrici di incitamenti razziali. La Suprema Corte, con la sentenza 33179, depositata ieri, ha infatti respinto il ricorso del coordinatore di un sito internet specificatamente volto ad incrementare le fila dei sostenitori della tesi della superiorità razziale. L’imputato chiedeva di essere assolto in nome del rispetto della libertà di pensiero, negando contestualmente la giurisdizione del giudice italiano in virtù del fatto che il sito-madre, oltre ad essere stato costituito in territorio Usa, operava su un server straniero. Lo stesso coordinatore, inoltre, rivendicava il diritto a ricevere un trattamento paritario a quello riservato ad un direttore di giornale.
L’impianto confutativo avanzato dall’imputato, tuttavia, è stato letteralmente smontato dalla Cassazione: il collegio della III sezione ha infatti specificato che il giudice italiano risulta competente ad esprimersi sulla diffamazione aggravata dall’odio razziale, nonostante il sito web vanti una registrazione estera, dal momento che l’offesa è stata percepita dai fruitori presenti in Italia. L’attività portata avanti dal ricorrente e dai rispettivi supporter all’interno del portale online, tra gli altri discutibili scopi, adescava proseliti, istigava azioni dimostrative nel territorio italiano, racimolava fondi per la “causa” e sentenziava giudizi su individui o avvenimenti, bollando come “traditori” o “delinquenti italiani” i soggetti a favore dei principi di eguaglianza ed integrazione con gli immigrati. Sono arrivati, ovviamente, a cadere anche i diritti di libertà di pensiero e associazione, in quanto entrambe insussistenti laddove la ‘presunzione’ di libertà è utilizzata per fomentare la discriminazione. Nessuna possibilità, poi, per l’imputato di essere assimilato alla figura dirigenziale di una testata giornalistica: in primo luogo perché la Cassazione ha chiarito (sentenza 23230/2012) come il prodotto-blog non possa essere compreso nella definizione di “stampato”, e poi perché la stessa ha riconosciuto al ricorrente una responsabilità soggettiva in quanto organizzatore e moderatore del blog specifico.
Infine, i requisiti di stabilità e organizzazione propri di un sito web, hanno contribuito a fare della comunità virtuale un elemento idoneo per la configurazione del reato di associazione a delinquere. “Il minimum organizzatorio necessario a integrare l’associazione a delinquere nelle diverse sfaccettature analizzate dalla giurisprudenza si modula in maniera specifica per le realtà associative cosiddette ‘in rete’, – si legge nella sentenza- le quali utilizzano le nuove tecnologie, privilegiando l’uso dei blog, chat o virtual communities in internet, non potendosi per tali strutture ricercare quella fisicità di contatti tra i partecipi, tipica dell’associazione a delinquere di tipo, per così dire classico”. Da oggi in poi, dunque, chiunque abbia la malintenzionata idea di metter in piedi un blog con scopi esplicitamente razzisti dovrà fare i conti con la commissione di un delitto contro l’ordine pubblico, che il nostro Codice Penale (art. 416 c.p.) punisce molto severamente.
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