Per i magistrati della Corte, sez. III civile, decisione 22 marzo 2011 – 27 aprile 2011, n. 9422, il tempo libero non è un diritto fondamentale della persona, dato che quest’ultima “è libera di scegliere tra impegno instancabile nel lavoro e il dedicarsi, invece, a realizzare il suo tempo libero da lavoro e da ogni occupazione”.
Le perdite di tempo, l’attesa al telefono, le file allo sportello, nella specie appresso ad una compagnia telefonica che ti ha staccato l’ADSL e quindi la connessione ad Internet, configurano solo fastidi della vita quotidiana, che integrano una violazione di diritti solo immaginari, quali il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità.
Insomma, essere e vivere felici è un “diritto immaginario dal quale non può derivare una responsabilità risarcitoria“.
Alle prese con il concetto di felicità, la Corte preferisce dunque, per celare l’imbarazzo di una forte miopia, raccontarci di criteri risarcitori, della mancanza di prova o, peggio ancora, della carenza di tutela costituzionale del benessere dei cittadini.
La Costituzione, al contrario, ha dato dimostrazione di avere a cuore il diritto al pieno sviluppo della persona umana, che, senza troppe difficoltà, potrebbe così tradursi: tutti hanno il diritto a perseguire la felicità.
Si tratta di diritti naturali che bisogna privilegiare, dandogli il posto più alto. La giustizia umana deve conformarsi alla legge naturale e, perciò, alla natura umana.
Il mio professore di filosofia avrebbe aggiunto che la giustizia umana, conformandosi alla legge naturale, esercita sulla terra la stessa missione che la giustizia divina esplica sul piano universale.
Senza doversi ancorare a mezzi invisibili di sostegno, è sufficiente ricordare che i diritti alti, cui ogni democrazia deve mirare, debbono, per forza di cose, stare legati ad essa con un abbraccio forte e sincero.
L’idea di democrazia deve camminare a braccetto con il diritto alla felicità e la felicità deve essere uno degli obiettivi fondamentali della civiltà di un popolo, il fine ultimo dell’essere umano.
La nostra Costituzione riconosce il diritto alla felicità, ma se si vuole evitare l’equivoco di fondo, la buccia di banana, su cui si annida il “diritto immaginario”, andrà prima o poi prevista una norma espressa, prendendo ad esempio chi, prima di noi, ha capito di cosa si parla.
Per fare alcuni esempi, la dichiarazione di indipendenza USA che, nel lontano 1776, ha introdotto il diritto al perseguimento della felicità, o l’articolo 10 del supercodice della Corea del Sud, che ha tutelato questo pregiatissimo bene, dandogli lo stesso valore della dignità personale.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento