Da più parti si teorizza adesso l’inutilità o, peggio, la dannosità delle Regioni, prefigurandone la soppressione; qualcuno annuncia la costituzione di comitati referendari a questo scopo.
Così dopo avere utilizzato fiumi di inchiostro filosofeggiando sull’abolizione delle Province, quale rimedio a tutti i mali della politica, dichiarando – in modo del tutto superficiale e non corretto – che alla costituzione delle Regioni doveva corrispondere la soppressione delle Province, adesso ci si rende conto che forse l’obiettivo era sbagliato, che in fondo non sono le Province a costituire uno spreco, ma le Regioni.
D’altronde l’entità dei costi di funzionamento dei due livelli di Governo, alla luce dei dati che vengono pubblicati in questi giorni, determina un obbligato cambio di rotta per i più o meno improvvisati predicatori della moralità e fustigatori dei corrotti costumi.
Mi chiedo: com’è possibile e, soprattutto, come può essere credibile tanto stupore ostentato da quanti oggi affermano l’urgenza di una profonda riforma del sistema?
Rileggendo l’ultimo discorso alla Camera dei Deputati di Bettino Craxi del 29 aprile 1993, rimasto nella storia parlamentare per il riconoscimento che il sistema dei partiti aveva operato non rispettando le leggi che esso stesso si era dato e che il fenomeno della corruzione aveva portato livelli di degrado insopportabili nella vita pubblica, sembra che il tempo si sia fermato, malgrado tangentopoli, malgrado la seconda(?) repubblica, malgrado l’estinzione dei vecchi partiti, malgrado molti deputati di allora siedono ancora in Parlamento.
Caduta la Prima Repubblica – come convenzionalmente ormai si afferma anche se riteniamo che non si avvenuto alcun cambiamento nell’assetto costituzionale dello Stato tale da segnare il dato storico del passaggio ad una “nuova” Repubblica – in realtà niente è cambiato perché non è cambiato il sistema.
Nella storia, la denominazione di una forma di stato preceduta da aggettivi numerali indica i regimi dello stesso tipo che si sono succeduti discontinuamente in un paese con assetti costituzionali e istituzionali differenti quali ad esempio le Repubbliche.
In Italia la distinzione tra prima e seconda Repubblica è un’espressione giornalistica, divenuta poi di uso comune, ma storicamente scorretta, poiché si riferisce quale elemento di discontinuità storica alla trasformazione politica avvenuta durante il biennio 1992 – 1994, che non si risolse in un cambiamento di regime bensì in un mutamento del sistema partitico e nel ricambio di parte dei suoi esponenti nazionali.
La cosiddetta “seconda Repubblica” si è caratterizzata al contrario per una costante – non so quanto consapevole – demolizione della credibilità delle Istituzioni e contemporaneamente della credibilità della classe politica, anche da parte degli stessi uomini delle Istituzioni.
Un continuo scontro tra i poteri dello Stato, tra Politica e Magistratura, condito da uno stillicidio di inchieste e di comportamenti non certo cristallini ha contribuito a minare dalle fondamenta la credibilità stessa delle Istituzioni agli occhi dei cittadini.
Il grave rischio che oggi si corre è quello che la sfiducia nei partiti e nella classe politica si traduca nella sfiducia nelle Istituzioni.
Ma davvero si fa il bene delle Istituzioni o si pensa di governare il Paese sostenendo l’abolizione di tutti i livelli di governo?
L’assimilazione Istituzione con alcune persone che commettono illeciti – e che per questo vanno perseguiti – tradisce un perverso modo di intendere le Istituzioni stesse.
Si invocano nuove leggi anti corruzione, anti sprechi: perché non si applicano quelle vigenti?
Si invocano sempre nuove regole, ben sapendo, come i recenti fatti testimoniano, che l’eccesso di regole si tramuta in assenza di regole.
Eppure, ad esempio, dell’attuazione dell’art. 49 della Costituzione, sulla regolamentazione dei partiti politici non si sente parlare, malgrado il Consiglio dei Ministri, il 30 aprile, abbia conferito al Professor Giuliano Amato “l’incarico di fornire al Presidente del Consiglio analisi e orientamenti sulla disciplina dei partiti per l’attuazione dei principi di cui all’articolo 49 della Costituzione, sul loro finanziamento nonché sulle forme esistenti di finanziamento pubblico, in via diretta o indiretta, ai sindacati”.
Quali analisi e quali orientamenti sono stati forniti dal super esperto Amato?
Vanno introdotti controlli severi, trasparenza sull’uso delle risorse, sanzioni effettive ed immediate, decadenza dalla carica in caso di accertamento di responsabilità e successiva interdizione da ogni carica pubblica, revisione reale del sistema del finanziamento della politica a livello nazionale e regionale, eliminazione di ogni forma non documentata e trasparente di finanziamenti, rimborsi, elargizioni comunque denominate a gruppi parlamentari e gruppi consiliari regionali.
E’ necessario un super tecnico per fare questo o manca la volontà politica?
Accade così che bisogna individuare un obiettivo da colpire, facile da far assimilare all’immaginario collettivo – come ha ampiamente dimostrato la dissennata campagna mediatica contro le Province – per distrarre dai problemi reali.
Da tempo, da più parti, si chiede fortemente – purtroppo inascoltati – di avviare una riforma organica complessiva della Pubblica Amministrazione partendo dalle funzioni.
Bisogna innanzitutto delimitare gli spazi d’azione della Pubblica Amministrazione, semplificare e disboscare tutti quegli ambiti di intervento nei quali non ha senso né utilità l’intervento pubblico come oggi esistente, che può rappresentare soltanto un appesantimento di procedure e costi senza benefici.
Quindi va individuato l’ambito territoriale ottimale e il livello di governo migliore per l’esercizio delle funzioni, individuando con chiarezza ed univocità chi fa cosa, per chiarezza, semplificazione ed individuazione certa delle responsabilità.
Le Regioni devono finalmente diventare un livello di governo, con potere legislativo – e non gestionale e amministrativo come di fatto sono oggi – secondo il disegno costituzionale: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione (…)” – art. 117, primo comma, della Costituzione.
E’ un livello di governo troppo distante dai cittadini per continuare a svolgere funzioni amministrative e gestionali di dettaglio, erogazione di servizi alla persona o di gestione del territorio che non sia la pianificazione regionale.
E’ la commistione fra il potere legislativo e la gestione che crea una grave anomalia nel nostro sistema. Il soggetto regolatore, quale è la Regione, non può al tempo stesso gestire direttamente ciò che regola, per di più senza controlli adeguati.
Le funzioni amministrative, secondo l’art. 118, sono invece da attribuire a Comuni e Province, quali enti elettivi e rappresentativi del territorio e conseguentemente soggette al controllo immediato dei cittadini, salvo casi per cui è necessario, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza, attribuirle ad un livello superiore.
Ecco che è il Comune, ente più vicino ai cittadini, l’Ente destinatario di tutte le funzioni, soprattutto quelli collegati ai servizi alla persona, che meglio di qualunque altro livello di governo è vicino ai cittadini; alla Provincia quale ente di area vasta vanno attribuite tutte le funzioni, principalmente di gestione del territorio, che non possono essere svolti dai Comuni: viabilità, trasporti, tutela dell’ambiente, formazione professionale, politiche del lavoro, protezione civile, pianificazione territoriale di coordinamento, istruzione scolastica superiore, organizzazione dei servizi pubblici locali (rifiuti, servizio idrico, trasporto pubblico locale), etc.
Un adeguato ed efficace sistema di controlli garantisce la correttezza della gestione.
Chi immagina di rispondere alla pressante richiesta di pulizia che proviene dall’opinione pubblica ipotizzando soppressioni di livelli essenziali di governo non fa il bene delle Istituzioni.
Sentire alcuni Parlamentari che oggi si scandalizzano per i rimborsi ai gruppi consiliari regionali è francamente poco credibile.
E’ positiva, anche se in parte tardiva, la presa di posizione della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome del 26 settembre che, come si legge nel comunicato finale, “nel ribadire la necessità improrogabile di una riforma complessiva e coerente degli assetti istituzionali, ritiene indispensabile intervenire al più presto sui seguenti punti:
- una riduzione netta e significativa di tutti i costi della politica, a partire, per le Regioni che non si sono ancora adeguate, dalla piena applicazione delle norme per la riduzione del numero dei consiglieri regionali di cui al Decreto Legge n. 138 del 2011, promuovendo l’omogeneizzazione delle diverse situazioni regionali anche attraverso la valorizzazione delle migliori pratiche;
- un’azione volta ad assicurare la piena trasparenza dei dati relativi ai costi di funzionamento delle Istituzioni e dei gruppi consiliari;
- l’attivazione di procedure di controllo, attraverso la Corte dei Conti, anche per quelle spese connesse ai costi della politica, oggi ancora non sottoposte a tale forma di controllo.
A tal fine, propone al Governo l’adozione di un provvedimento legislativo concordato urgente, da emanare entro la prossima settimana, che consenta il raggiungimento dei citati obiettivi in tutto il territorio nazionale”.
Si tratta di iniziative e scelte ampiamente condivisibili; incomprensibile il metodo individuato dalle Regioni per la loro adozione.
Ancora una volta decretazione d’urgenza – ma si tratta di casi di straordinaria necessità ed urgenza, imprevisti ed imprevedibili? -, ancora una volta un ricorso all’iniziativa del Governo (tecnico), di nuovo nessun riferimento ad interventi organici e sistematici né alle funzioni.
Ma perché bisogna invocare un decreto legge del Governo e non si attuano sin da subito iniziative serie, credibili, trasparenti in ogni Regione?
E’ possibile che le Regioni cedano in questo modo la loro autonomia organizzativa, sancendo così anche formalmente che debba essere necessariamente il Governo ad intervenire?
L’autonomia è un valore imprescindibile che si costruisce con azioni concrete e con piena responsabilità.
E’ questa l’essenza stessa del nostro sistema costituzionale, della democrazia e della rappresentanza.
Delle due, una: o si dà atto del fallimento della Repubblica delle autonomie solennemente voluta dai padri Costituenti e sancita dall’art. 5 della Costituzione, e si avvia una nuova fase costituente per la riforma complessiva del nostro ordinamento fondato sullo Stato centrale cui ricondurre la generalità dei poteri e delle funzioni, oppure, una volta per tutte, la nostra classe politica si assume l’onere e l’onore di rappresentare davvero gli interessi dei cittadini amministrati, nel rispetto delle Istituzioni al cui servizio sono stati eletti.
La mediazione dei partiti, come voluti dalla Costituzione, senza una vera riforma, non funziona più.
Purtroppo i partiti ormai appaiono come incapaci di proporre soluzioni politiche, ma appare che sanno accordarsi tra di loro per qualche riforma di vasta portata, che però non va al di là dell’effetto-annuncio, come avvenuto per la riduzione del numero dei parlamentari.
Nessuna forza politica si è espressa contro la riduzione, dichiarato come una riforma voluta da tutti e realizzabile entro la fine della legislatura.
Peccato però che anziché limitarsi al numero dei parlamentari, si è voluto imbastire una proposta di riforma costituzionale articolata, mal costruita, poco coordinata, approvata a maggioranza semplice in prima lettura al Senato e che certamente non vedrà la luce prima della fine della legislatura.
In questo scenario, “l’attuale fase di popolarità dell’antipolitica può essere contenuta solo se i partiti accettano di essere altro da ciò che sono stati per troppo tempo, accettando di essere, come sono nelle democrazie meglio funzionanti, organizzazioni finalizzate alla elaborazione di sintesi e soluzioni per le questioni del nostro tempo, alla conseguente raccolta del consenso popolare e alla fornitura di personale autorevole e qualificato per le cariche elettive o di governo, senza più la pretesa di dominare le istituzioni”.
Bisogna avere consapevolezza che, proprio in questa fase in cui si registra la evidente difficoltà della politica a svolgere il suo ruolo di interpretare e tradurre in azioni amministrative e di governo i bisogni della gente, occorre ripartire dai territori e dalle amministrazioni locali, quali sedi storiche e naturali di esercizio della democrazia partecipata, evitando il ritorno al centralismo statale.
Guai dunque a considerare una male inevitabile tagliare le rappresentanze democratiche per togliere occasioni di corruzione e malcostume.
La corruzione e il malcostume provengono dagli uomini che indegnamente hanno usato le Istituzioni a loro vantaggio personale; si combattono con gli strumenti propri di uno Stato democratico: la prevenzione e la repressione.
Non è il fallimento delle autonomie, ma di una parte di coloro che hanno avuto il mandato di rappresentarle.
Se non si opera questa netta distinzione il rischio è altissimo; è giunto il momento di porre fine alla demagogia e al populismo, alla ricerca del facile e immediato consenso politico, mediatico, culturale.
La difesa delle Istituzioni e dei principi costituzionali, oggi più che mai, è un’urgente necessità e un dovere per tutti.
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