È un passaggio piuttosto singolare della sentenza n. 250/17, in quanto legittima una riduzione dell’assegno pensionistico strutturale per il c.d. effetto trascinamento: la mancata perequazione nel biennio 2012-2013 dei trattamenti pensionistici superiori a sei volte il trattamento minimo INPS ha, infatti, ridotto la base perequativa sulla quale si applica l’indicizzazione negli anni successivi e, pertanto, ogni anno la pensione risulta inferiore all’importo che avrebbe avuto in assenza del blocco.
In altri termini, la Corte afferma che le pensioni di oltre sei volte la minima non hanno “molto sofferto”, pur avendo perduto per sempre il 5% della loro pensione.
Sul principio della ragionevolezza
La sentenza n. 70/2015 ha ribadito che la rivalutazione automatica è uno “strumento tecnico” necessario per salvaguardare le pensioni dall’erosione del loro potere d’acquisto a causa dell’inflazione, e per assicurare nel tempo il rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti di quiescenza. Ha ribadito anche che va salvaguardata la garanzia di un reddito che non comprima le “esigenze di vita cui era precedentemente commisurata la prestazione previdenziale”. È su questo “solido terreno” che il legislatore deve muoversi “bilanciando, secondo criteri non irragionevoli, i valori e gli interessi costituzionali coinvolti”: l’interesse dei pensionati a preservare il potere d’acquisto delle proprie pensioni; le esigenze finanziarie e di equilibrio di bilancio dello Stato.
In questo bilanciamento il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, non può “eludere il limite della ragionevolezza”, principio cardine intorno al quale ruotano le scelte in materia pensionistica. Pertanto, se queste scelte si prefiggono risparmi di spesa, questi ultimi devono essere “accuratamente motivati”, e cioè “sostenuti da valutazioni della situazione finanziaria basate su dati oggettivi”. E le Relazioni tecniche sono la cartina di tornasole della razionalità di queste scelte.
Pertanto, con la sentenza in commento, il diritto e la legge sembrano cedere il posto al principio della “ragionevolezza”. In questa prospettiva, l’articolo 81 Cost. (con le modifiche imposte dalla Ue sul pareggio di bilancio) tende ad affievolire, fino a sfumarli del tutto, i diritti fondamentali dei cittadini fissati nella prima parte della Carta fondamentale della Repubblica.
Conclusioni
È certo che l’art. 1 del D.L. n. 65/2015 è stato dettato in via prioritaria dalle esigenze di contenimento della spesa previdenziale. Il punto è che, al di là del contenimento di spesa conseguito dal D.L. n. 65/2015 ed ora confermato dalla Corte – seppure nella logica della temporaneità -, una ulteriore ed altrettanto seria esigenza di contemperamento di valori si pone in termini di equità generazionale, così come emerge dalla elencazione degli obiettivi di cui al preambolo dell’art. 1, D.L. cit., disposto “anche in funzione della salvaguardia della solidarietà intergenerazionale”, a fronte del quale il collegamento fra art. 36 ed art. 38 Cost. sembra essersi dissolto.
Il problema cruciale è capire fino a che punto la legge possa disporre per il passato, specie laddove vengano in rilievo “altri valori ed interessi costituzionalmente protetti”, come nel caso della corresponsione della retribuzione o, per quanto qui rileva, delle prestazioni previdenziali.
Benché non sia certamente concesso alla brevità di queste considerazioni dissertare sui mobili confini che separano la sfera delle scelte politiche riservate al legislatore dagli ambiti del controllo di costituzionalità spettante al giudice delle leggi, in via di approssimazione, agli angusti fini che ci occupano, ci pare si possa dire che il D.L. n. 65/2015 non abbia sufficientemente ristabilito l’equità, da un lato, perché quanto viene restituito è lontano dalle legittime aspettative dei pensionati e, dall’altro, perché non supera le osservazioni e le censure circa la sua conformità alle norme costituzionali.
Con la sentenza della Corte Costituzionale si sono esperite – e di fatto esaurite – le vie del ricorso interno, sicché l’unica strada ancora percorribile è quella di rivolgersi alla CEDU, che in più di una occasione si è dimostrata attenta ai diritti dei pensionati, ribadendo il principio per il quale le ragioni finanziarie non possono essere annoverate come ragioni imperative per comprimere i diritti.
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