Il governo, nella fase di approvazione del Jobs Act – secondo tempo – ha infatti in programma di intervenire sulla normativa dei contratti. Una volta portato a casa il decreto con gli interventi a ricaduta immediata, Renzi e Poletti si sono presi tutta la calma necessaria per aprire il problematico cantiere dei diritti sociali, degli ammortizzatori e, sul fronte più delicato, dei freni ai licenziamenti.
Così, il governo non si è fatto troppi scrupoli a presentare, dopo la pausa estiva, un bell’emendamento all’articolo 4 del disegno di legge in discussione al Senato che introduce il nuovo contratto a tutele crescenti. Una vera e propria bomba, che ha aperto nuove e profonde crepe sia all’interno del Partito democratico, sia tra governo e sindacati, arrivando a creare una situazione intricatissima, con sbocchi ancora tutti da decifrare.
Purtroppo, però, in questi casi, la posizione politica finisce per prendere il sopravvento sulla materia del contendere, o, quantomeno, sul reale significato che questa finirebbe per avere.
Sia il governo con la sua ferocia comunicativa, che i sindacati impantanati in battaglie del secolo scorso, hanno perso di vista il reale portato di questa norma, tanto nella formulazione in vigore attualmente, quanto per il progetto di riforma in esame.
E se fosse tutta una gigantesca battaglia pregiudiziale, con effetti sulla realtà molto inferiori di quelli gridati da ambo le parti? Siamo davvero così sicuri che l’articolo 18 sia il problema principale?
Attualmente, ci troviamo in una fase senza precedenti del mercato del lavoro: i salari sono bloccati, i prezzi in discesa – e non è un gran segnale – e soprattutto la disoccupazione giovanile è al record storico del 40%, picco mai toccato dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Gli analisti e i premi nobel non riescono a immaginare le conseguenze di questa crisi infinita, e dunque è difficile ritenere che Renzi e la Camusso possano avere la soluzione in tasca.
Ma se anche così fosse, e l’articolo 18 si rivelasse la chiave per il ritorno all’era della prosperità, siamo così sicuri che quei dati, in particolare quelli sul lavoro dei giovani, muteranno qualunque sia l’esito di questa battaglia campale?
Solo chi è troppo anziano – o fortunato – può essere così miope da trincerarsi dietro a un simile vessillo – o, al tempo stesso, puntare tutto sulla sua distruzione. Pensare che i problemi occupazionali degli italiani, e dei giovani in primis, possano risolversi con l’abolizione o meno dell’articolo 18 rischia di spostare il focus dal piano della crescita a quello dell’opportunità politica.
Perché non è un problema
L’articolo 18 non è un problema per i giovani che si affacciano nel mondo del lavoro: già predisposti a lunghi anni in formato stage, contratti di pochi mesi, collaborazioni a distanza quando non gratuite, o inviti a costituire la propria partita Iva pur di lavorare, sanno bene che le garanzie dei licenziamenti senza giusta causa non li riguarderanno per parecchio tempo.
Allo stesso modo, l’articolo 18 non è il problema principale delle aziende: in perenne ansia da bilancio, i datori di lavoro hanno tutti gli strumenti atti a capire se il lavoratore ha le carte in regola o no per portare valore aggiunto all’azienda. Ciò non dipende soltanto dalle mille forme di precarietà che circolano da anni – e che l’articolo 18 non ha impedito – ma anche dall’estrema misurabilità che oggigiorno pende sull’apporto di ogni risorsa.
Sfortunatamente, per le aziende questo non è tempo di grandi investimenti in prospettiva, in primis sulle persone. Ciò non cambierà con il superamento o meno dell’articolo 18: le agenzie interinali continueranno ad avere la fila alla porta, i laureati dovranno rassegnarsi un destino da tirocinanti e i raccomandati resteranno al loro posto. In questo quadro, è la capacità dei neo assunti di incidere nel più breve tempo possibile a fare la differenza: non solo viene premiata, ma rappresenta la miglior tutela al possibile licenziamento, o al mancato rinnovo del contratto in scadenza.
Ecco perché abolire o mantenere l’articolo 18 non porterà a cambiamenti significativi negli indicatori economici e in particolare in quelli occupazionali. Dopodiché, se si vuole veramente dare una mano alle imprese, sarebbe il caso di ridurre davvero il costo del lavoro – non con una riforma fantoccio come quella di un anno fa – in modo da rendere più conveniente le assunzioni e, magari, riportare al centro il vero nucleo dell’economia di mercato, il rischio. Ma non sia mai che in Italia si risolva un problema concreto.
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