Ebbene, un altro segnale inequivocabile pare spingere verso una riedizione delle prime elezioni del nuovo millennio: la sinistra ha deciso di perdere. Le avvisaglie sono ormai dappertutto, e anzi, man mano che si avvicinano le urne questo sforzo coeso di tutte le parti in gioco – in realtà l’unico in cui le varie parti sembrano saper remare nella stessa direzione – sembra sempre più forte e convinto a voler lasciare il Paese ancora una volta nelle mani di Berlusconi o, in caso di scenari poco probabili, a una fragile alleanza con i 5 Stelle.
Ci sono almeno tre motivi per cui la sinistra non tornerà al governo. Vediamoli.
Lo smembramento
Con una legge elettorale come quella approvata da un Parlamento a maggioranza Pd e alleati, ci si dovrebbe aspettare che le stesse forze politiche che l’hanno avallata trovino in quello stesso sistema il proprio terreno naturale.
E invece, in preda al tafazzismo ormai nel Dna, si torna all’antico con vari candidati nemici e minoranze che fondano partitini, i quali, spaventati dalle soglie di sbarramento, decidono di dare vita a federazioni dai nomi improbabili e dai simboli tutt’altro che originali.
Nel frattempo, il Partito democratico, locomotiva di quello che dovrebbe essere uno schieramento politico e invece è una perenne riunione di condominio, si sta dimostrando incapace di fare da collante, ciò che invece, pur tra mille incomprensioni, è ancora in grado di essere Silvio Berlusconi nel versante opposto. Così, una potenziale forza elettorale dal 35%, viene ridotta a due partiti, la cui somma delle parti è inferiore al risultato che potrebbero conseguire insieme.
Gli autogol
Dopo la sconfitta del referendum, Renzi ha tentato maldestramente di salvare la faccia facendosi da parte – ma fino a un certo punto – riuscendo però a tenere la guida del partito e mantenendo alcuni suoi fedelissimi al governo, come Luca Lotti o Maria Elena Boschi. E proprio la “premier dame” del Partito democratico sembra, oggi, più un problema che una risorsa, vista la sovraesposizione mediatica che la contraddistingue e il nodo irrisolto di Banca Etruria, con tanto di commissione ad hoc, audizioni e scontri televisivi sull’argomento più spinoso della legislatura a pochissimi giorni dallo scioglimento delle Camere.
Renzi ha ammesso in questi giorni che la vicenda sta erodendo il consenso al suo partito, ma ciò nonostante pare convinto a voler mantenere Boschi in lista delle imminenti candidature.
Il messaggio vuoto
È questo il tema più ostico per il centrosinistra, che sembra ripiombato nel vuoto cosmico di comunicazione che lo accompagnava dalla Bolognina in avanti. Si è dibattuto per anni se il vero programma unico dello schieramento progressista non fosse in realtà l’antiberlusconismo militante, una questione che in realtà nascondeva il vero lato debole della proposta politica di cui anche il Pd oggi sembra affetto: l’incapacità di trasmettere una visione della società e dell’economia chiara e differente rispetto a un modello che continua a impoverire le nuove generazioni erodendo capitali e patrimoni.
La destra ha il suo mantra: meno tasse. Qual è la visione della sinistra? Qualche anno fa, all’alba dell’era Renzi, la rottamazione era un paradigma che si poteva adattare a tutti gli scenari, da quello istituzionale a quello prettamente finanziario e industriale.
Ma oggi, con alcune riforme portate in fondo ma pochi cambiamenti degni di nota, il castello è crollato, con Pd ed ex alleati i grande difficoltà nel proporre qualcosa di realmente innovativo per stregare l’elettorato. Un male di cui la sinistra italiana soffre da decenni a cui non si è trovata una cura definitiva e che sembra destinato a segnare anche le elezioni 2018. Con gli avversari che, sulla riva del fiume, non fanno altro che attendere il cadavere.
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