Pensiero unico e Post-democrazia

Quando nel 2003 il sociologo inglese Colin Crouch coniò il termine “Post-democrazia”, probabilmente in pochi si aspettavano che lo scenario delineato dal politologo avesse abbastanza spazio da ispirare ora, 10 anni dopo, tutte le democrazie occidentali. La base dello studio di Crouch fu che, man mano che si andasse avanti con i decenni, le scelte che la politica avrebbe potuto compiere sarebbero state sempre di meno, a vantaggio della soluzione ideale.

Se esiste una soluzione ideale ad ogni problema che la politica si trovi a risolvere ne discende che non ha più senso definire una scelta “di destra” o “di sinistra”, visto che la soluzione ideale è quella che meglio di ogni altra possa corrispondere al c.d.  interesse generale, che garantisce il consenso che serve alla politica per legittimarsi.

In “Destra e Sinistra” Norberto Bobbio aveva detto che la distinzione tra i due concetti non solo esistesse ancora (eravamo nel 1994) ma aveva anche senso di esistere. Circa 10 anni dopo Colin Crouch, che i lavoristi conoscono come il più grande sociologo del lavoro vivente, nel libro omonimo (Post-Democracy) delineò i tratti di una democrazia formale che si dipanava tra scelte obbligate.

Nella trattativa sindacale delle relazioni industriali, nonostante quello possa sembrare l’ambito nel quale la contrapposizione tra le forze rappresentative dei lavoratori ed il c.d. padrone, per via di irrisolti ruoli ideologici, toccasse il suo apice, la scelta obbligata esisteva già da tempo e si andava ad identificare con l’efficienza della macchina produttiva dell’azienda, che assicurava condizioni di retribuzione migliori per i lavoratori (o, perché no, la stessa conservazione dei posti di lavoro) ed incremento del profitto per il datore.

Seppur il pensiero unico sia sovente ricondotto entro gli schemi del liberismo (dunque della “destra”) è difficile da negare che l’interesse generale sia un concetto presente solo nella letteratura politologica “socialista”, visto che il proletariato ed il suo interesse corrispondesse appunto, nella ricerca scientifica di sinistra, all’insieme sociale più vasto e più vituperato, il cui credito verso le classi borghesi giustificava, appunto, la ricerca dell’interesse largo delle classi produttive (secondo la categoria marxista) che potesse soddisfarle ed assicurare il concetto di ottimo alla società investita dalla ricerca di una soluzione al problema. Il pensiero unico è appunto la scelta ottima per la società, in grado di garantire – il più possibile –   il massimo soddisfacimento degli interessi di tutte le classi sociali.

È necessario notare, altresì, che il corporativismo fascista della prima metà del secolo scorso, abolendo la libertà sindacale, si prefiggeva proprio di evitare il dibattito imposto dal marxismo, dispendioso ed antieconomico per la società. Ricordare che Mussolini provenisse dal socialismo italiano serve solo ad indebolire la tesi di Bobbio, che si fonda su una contrapposizione i cui perimetri appaiono ora così impercettibili da essere tralasciati.

Ma allora, se il pensiero unico è la base su cui si fonda la constatazione della formalità della democrazia post-novecentesca, se, per quanto si possano combattere tra di loro i lavoratori e gli imprenditori, la scelta che assicura a tutti il massimo vantaggio possibile è una ed una sola; se, nonostante, di tanto in tanto, capiti di sentire richiami all’ordine di matrice ideologica da parte dei politici alle proprie schiere di consenso, da circa 7 anni abbiamo visto, in tutta Europa (la Große Koalition in Germania, le Larghe Intese in Italia, altre situazioni nel resto del continente che nascondono sostanziali unità di vedute nella politica) non sarebbe, forse, il caso che per primo se ne prenda atto di questa situazione e per secondo si riconosca al Prof. Crouch di averci visto giusto?

Se politologia e sociologia si esprimono per mezzo di “modelli”, ai quali ricondurre le situazioni che emergono alla fine dei processi analitici, allora il diritto non potrà rimanere troppo a lungo insensibile a questo processo di unitarietà politica che sta contraddistinguendo le varie società occidentali, non fosse altro perché le norme hanno senso fino a che sono utili: se la politica ha trovato canali di dialogo che i cittadini non riescono neanche a percepire, un diritto che basi la democrazia sugli interessi contrapposti ancora manifesta utilità? Ed in caso di risposta affermativa, per quanto tempo ancora continuerà a manifestare utilità?

In questo calderone non risulterebbe più possibile rifiutarsi di notare che, a maggior ragione ora che la crisi è senza dubbio finita, le nazioni che più lentamente ne sono uscite sono proprio quelle governate per mezzo di forme che rendessero difficile agli elettori comprendere chi avesse la responsabilità di fare cosa. Gli Stati Uniti, l’intero Sudamerica, perfino la Cina che sembra viaggiare verso una crescita del 7%, sono o governati da forme di governo presidenziali oppure sono dittature, il che non può non ricondurci a ragionare di come le decisioni vadano prese con la maggiore velocità possibile (assicurando, almeno formalmente, le regole della democrazia: maggioranza e garanzie), visto che il fenomeno della globalizzazione ha aumentato la velocità del tempo, come un cavallo imbizzarrito che la politica fatichi a controllare.

Il bassissimo grado di responsabilità che caratterizza l’Unione Europea (Commissione Europea, Consiglio europeo, Parlamento Europeo, parlamenti nazionali) è una situazione molto dispersiva. Lo abbiamo notato tutti nel confronto tra una fortissima BCE (composta dalle banche) ed istituzioni politiche europee che al massimo possono assistere ad un organo non eletto da nessuno che orienta la politica economica di ben 28 Stati europei, che parlano circa 25 lingue ufficiali diverse.

Si può notare anche dal fatto che vi siano ora a confrontarsi da un lato il socialismo europeo e il popolarismo europeo e dall’altro l’euroscetticismo (tanto di destra che di sinistra) in una forma di governo che non è il presidenzialismo, e che aggiunge al presidente della Commissione Europea il presidente del Consiglio europeo, e  normalmente a chi governi gli Stati una figura di garanzia (il Re, Il Presidente della Repubblica) che non è oggettivamente compatibile con decisioni rapide, come sono quelle che esige con sempre maggiore forza il mondo che ci stiamo trovando a vivere.

Questa riflessione potrebbe andare ancora avanti e magari trattare le scelte economiche più rilevanti, come l’Euro forte, che stanno caratterizzando l’U.E., ma, stranamente rispetto alla velocità che ha acquisito la politica globale, occorre attendere ancora.

Gregorio Marzano

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