Meglio tardi che mai!
Dopo 20 lunghi anni dall’implosione della 1° Repubblica, il cui epilogo viene oggi individuato nei libri di storia con l’ossimoro “tangentopoli”, e dopo il referendum-farsa attraverso il quale gli italiani pensavano di avere demolito il finanziamento pubblico dei partiti politici, registriamo con cauto ottimismo l’intesa raggiunta dai leaders politici Alfano, Bersani e Casini finalizzata ad accendere i riflettori sui bilanci dei partiti.
I recenti casi Lussi-Bossi hanno, paradossalmente, avuto il merito di accelerare un dibattito che da diversi anni suscitava interesse solo in qualche aula universitaria. L’ipotesi di lavoro, per la quale l’intesa politica sembra raggiunta, mira ad assoggettare i bilanci dei partiti e dei movimenti politici ad un doppio controllo esterno, di cui il primo affidato ad una società di revisione iscritta nell’albo speciale tenuto dalla Consob, con il compito di garantire la trasparenza e la correttezza nella gestione contabile e finanziaria, e l’altro affidato ad una Commissione nazionale ad hoc tenuta ad effettuare il controllo del rendiconto, della relazione e della nota integrativa dei bilanci con riferimento alla conformità delle spese effettivamente sostenute ed alla regolarità della documentazione prodotta a prova delle spese stesse.
Rimandando alla lettura del testo finale del disegno di legge, che sarà approvato dal Parlamento con legge ordinaria, una riflessione più completa, un commento estemporaneo ci porta a focalizzare il vero nodo giuridico della questione. Il legislatore infatti, vorrebbe imporre ad associazioni politiche di diritto privato un controllo di tipo pubblicistico tradizionalmente riservato dal nostro ordinamento ad enti che orbitano nella galassia del pluralismo istituzionale. Inoltre, al già previsto obbligo di rendicontazione prescritto ai partiti ed ai movimenti politici che partecipano o hanno partecipato alla ripartizione dei rimborsi per le spese elettorali, si aggiungerebbe l’obbligo per i partiti e per i movimenti politici di investire la propria liquidità derivante dalla disponibilità di risorse pubbliche in strumenti finanziari diversi dai titoli emessi dallo Stato italiano.
Le disposizioni contenute nel disegno di legge sembrano escludere ipotesi di discriminazione tra controlli su finanziamenti pubblici e controlli su finanziamenti privati. Se la risposta sembra implicita in considerazione dell’esigenza funzionale di avere un’unica contabilità ed un unico modello di rendicontazione delle risorse finanziarie ricevute dal partito politico, altrettanto non può dirsi in ordine alla necessità di preservare l’autonomia finanziaria di cui pur dispone un’associazione di diritto privato. Una cosa è esercitare un siffatto controllo “statale” su soggetti che, ancorchè di natura privatistica, risultano destinatari di finanziamenti pubblici, altra cosa è assoggettare al medesimo controllo anche tutto ciò che risulta in tutta evidenza annoverabile tra le risorse finanziarie di provenienza privata. Bisogna infatti tener presente che le associazioni politiche godono delle quote associative versate dai singoli iscritti nonché di svariate forme di libera contribuzione privata regolarmente dichiarate e registrate. Risorse finanziarie che non possono essere confuse con quelle propriamente di natura pubblica.
Un siffatto intervento dello Stato come quello che si vuole introdurre nel sistema dei partiti, mentre troverebbe unanimi consensi nell’opinione pubblica sempre più accecata dal desiderio di demolire tutte le tipologie di “caste”, con particolare riguardo a quelle politiche, rischierebbe di accendere un campanello d’allarme all’interno dei principi che regolano uno Stato di diritto, certamente, ma anche uno Stato liberale. Evidente è infatti il rischio che possa prendere corpo un profilo d’incostituzionalità dell’approvanda legge per violazione dell’autonomia privata sottesa al principio di libera iniziativa economica previsto dall’art. 41 della Costituzione.
Il problema, di non facile soluzione, trae origine direttamente dall’art. 49 della Costituzione che vale la pena qui ricordare: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Orbene, l’attribuzione di rilevanti funzioni pubbliche attribuite dalla Costituzione ai partiti politici mal si concilia con l’individuato strumento associativo di diritto privato, peraltro tenuto, nella pratica attuativa, accuratamente privo di riconoscimento governativo. Siamo quindi in presenza di enti la cui atipicità risulta in re ipsa per espressa volontà del Costituente.
In tale contesto, andrebbe seriamente valutata l’opportunità di pubblicizzare la natura giuridica degli attuali partiti politici, subordinando la ricezione del rimborso elettorale (rectius, finanziamento pubblico) al propedeutico riconoscimento governativo dell’associazione politica.
Tale accorgimento, invero, non richiederebbe la procedura aggravata dell’art. 138 Cost., prevista invece nell’ipotesi più radicale di modifica della natura giuridica. Il citato art. 49 parla infatti di associazioni, senza alcuna preclusione per il legislatore ordinario di prescrivere il riconoscimento governativo a quei partiti e movimenti politici che ambiscono a ricevere dallo Stato i rimborsi elettorali a titolo di finanziamento.
Peraltro, dello stesso avviso sembra essere un’autorevole Organo dell’Unione Europea. Nel recentissimo documento elaborato dalla Commissione GR.E.CO (Groupe d’Etats Contre la Corruptione, il braccio anti-corruzione dell’organizzazione paneuropea), è stato sottolineato che “la maggiore debolezza” del sistema dei partiti politici in Italia sta nei controlli, che il ruolo che i cittadini possono svolgere è “molto limitato” e che quello esercitato dalle autorità pubbliche è “molto frammentato”, “più formale che sostanziale”. In tale contesto la Commissione GR.E.CO, ritiene che in Italia si dovrebbe avviare un processo di riforma dei partiti cominciando da una chiara definizione del loro status legale.
Appare quindi evidente, non solo a noi, che il problema del necessario controllo esterno dei bilanci dei partiti politici può trovare soluzione solo se si riconsidera la natura giuridica di diritto privato chela Costituzione del ’48 ha voluto privilegiare, anche a costo di affrontare il percorso più lungo, ma più sicuro, della modifica costituzionale dell’art. 49.
Rimane altresì intatto il problema, non secondario, di non lasciare al dirigente di partito la facoltà di sostituirsi alla sede normativa per determinare egli stesso, con interpretazioni estemporanee ed arbitrarie il “metodo democratico” della vita interna del partito politico, atteso che in questi 60 anni di vita repubblicana, queste organizzazioni proprie della società civile e protagoniste indefettibili della vita politica ed istituzionale dello Stato italiano sono riuscite solamente a mescolare atavici vizi pubblici con sporadiche virtù private. Dovremo forse auspicare altri scandali come quelli Lussi-Bossi per attirare anche in questo delicato ambito l’attenzione del nostro Parlamento?
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