Vincenza Rando, l’avvocato della ragazza 21enne, che da anni vive sotto scorta per non aver mai negato la propria collaborazione agli inquirenti nella conduzione delle indagini, ha così spiegato la decisione dell’assistita: “Ha deciso di celebrare il funerale a Milano, perché l’amministrazione comunale si è costituita parte civile nel processo e le è stata vicina in questi anni”. L’oscura vicenda, a seguito del verdetto di primo grado pronunciato nel marzo 2012, ha visto trasformarsi l’omicidio per mano mafiosa di Lea Garofalo in un intricato rimpallo di responsabilità. Le eclatanti ammissioni del pentito Venturino, come detto, sono giunte soltanto lo scorso luglio, ad esse si è poi succeduta, durante il processo di secondo grado, anche l’impressionante, seppur non del tutto attendibile, confessione in aula dell’imputato per antonomasia, Carlo Cosco, l’ex compagno di Lea e padre di Denise. Su parere dell’accusa, il mea culpa di Cosco, che ha parlato di “raptus, perché Lea mi aveva fatto impazzire”, non sarebbe stato altro che un estremo tentativo volto a scongiurare l’aggravante della premeditazione, oltre che un ultimo escamotage per discolpare i fratelli, Vito e Giuseppe Cosco.
Altri due imputati, alias Giuseppe Cosco e Massimo Sabatino, erano stati scagionati dalle precedenti dichiarazioni di Venturino, il quale nei suoi verbali, oltre a riportare di un omicidio “imposto dalla ‘ndrangheta”, aveva attribuito la responsabilità delittuosa unicamente a Carlo e Vito Cosco, rei, a detta del pentito, di aver ucciso la donna strangolandola, mentre l’opera di disfacimento del cadavere ricadeva su di lui e Rosario Curcio. Il sostituto procuratore generale, Marcello Tatangelo, all’interno di questo scenario a tinte fosche, ha potuto così convalidare la conferma di tre dei sei ergastoli, oltre alla richiesta di uno sconto di pena per il collaboratore e due assoluzioni. Diversa è stata la posizione di Roberto D’Ippolito, l’avvocato rappresentante la sorella e la madre di Lea, che ha recriminato in aula la predisposizione di un “accordo” congegnato ad hoc fra gli imputati per “limitare i danni rispetto alla mazzata dei sei ergastoli“. La Corte d’assise d’appello, presieduta da Anna Conforti con Fabio Tucci come giudice a latere, pur tenendo saldo l’impianto dell’accusa, tramite il pronunciamento, ha offerto un’ulteriore interpretazione con specifico riferimento alla posizione di un imputato.
La conferma della condanna all’ergastolo è stata validata non soltanto nei confronti di Carlo Cosco, anche il fratello Vito, Rosario Curcio, e Massimo Sabatino, inizialmente discolpato dal pentito per il quale l’accusa aveva chiesto l’assoluzione, sono stati infatti castigati con la massima pena. Sulla sentenza potrebbero aver influito anche le dichiarazioni di un altro pentito, Salvatore Sorrentino; soltanto la deposizione delle motivazioni, tuttavia, potrà svelare nei dettagli le considerazioni dei giudici. Carmine Venturino ha beneficiato invece di una riduzione della pena, slittata dall’ergastolo a 25 anni, grazie alla sussistenza delle attenuanti generiche e soprattutto al contributo di Denise, che tramite il proprio legale, ne ha messo in rilievo il “contributo” nel ritrovamento dei resti della madre. E’ stato infine assolto Giuseppe Cosco perché giudicato non condannabile “per non aver commesso il fatto”. Per quanto poi riguarda i risarcimenti, la Corte li ha convalidati per tutte le parti civili costituitesi nel processo: oltre a Denise, la madre e la sorella di Lea anche il Comune di Milano.
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