Occorre cioè, secondo la S.C., la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili. La controversia è incardinata sulle seguenti determinanti processuali: la Corte d’Appello di Genova confermava la pronuncia del Tribunale di Massa che aveva riconosciuto il contribuente, per l’anno di imposta 2007, colpevole del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter, (omesso versamento di IVA) e lo aveva condannato alla pena di giustizia, ritenendo irrilevanti le giustificazioni basate sulle difficoltà economiche dell’azienda. Da parte sua l’imputato ricorre per cassazione affidando, i motivi del ricorso, alle seguente censure:
a) contrariamente a quanto desunto dalla Corte d’Appello, il comportamento del contribuente non era contraddistinto da dolo, in quanto l’omesso versamento dell’IVA fu determinato da mancanza di disponibilità economiche, avendo l’imputato tentato di far fronte ai debiti dapprima con risorse di altre società e poi con propri mezzi;
b) non può esser attribuita all’imputato una responsabilità oggettiva sulla base delle dichiarazioni rese dal Curatore fallimentare. Peraltro una diversa interpretazione delle dichiarazioni rese da quest’ultimo, avrebbe portato a una diversa formulazione della sentenza, in quanto l’elevatezza del volume di affari, non comporterebbe de plano anche l’esistenza di elevati profitti, soprattutto laddove esiste, come nel caso di specie, una notevole esposizione debitoria.
Secondo la S.C. le censure sono fondate in quanto il debito IVA non era l’unico che la società aveva verso l’Erario, ma era l’unico rimasto insoluto: a fronte di una tale tesi difensiva, che tendeva, evidentemente, ad escludere l’intento di privilegiare altre classi di creditori piuttosto che il Fisco, il giudice di merito avrebbe dovuto spiegare perché riteneva non plausibile il tentativo di pagare tutti i debiti verso l’Erario, tentativo non riuscito per una dedotta impossibilità oggettiva. Nella condivisibile decisione della S.C., essendo il reato commesso nel p.i. 2007, avrà pesato l’inequivocabile orientamento assunto dalla Corte costituzionale. Giova rammentare che il Giudice delle Leggi, con la sentenza n. 80, dell’8 aprile 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della prefata norma “nella parte in cui, in relazione ad omissioni di versamenti realizzatisi sino al 17 settembre 2011, è prevista una soglia di punibilità di 50.000 euro, inferiore a quelle stabilite, originariamente e fino all’intervento modificativo concretizzatosi con il D.L. n. 138/2011, per i delitti di omessa dichiarazione (euro 77.468,53) e di dichiarazione infedele (euro 103.291,38), dovendosi ravvisare una disparità, a sfavore dell’autore del mancato versamento, lesiva del principio di uguaglianza (art. 3 Cost.), sì da reputare sussistente, per il reato in oggetto, il più alto limite di euro 103.291,38, onde evitare la violazione del diritto garantito dalla Costituzione”. Il Giudice delle Leggi ha dunque dichiarato l’illegittimità dell’art. 10 ter del D. Lgs. 74/2000, nella parte in cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 16 settembre 2011, punisce l’omesso versamento dell’IVA, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad € 103.291,38.
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