L’iter che il Fisco deve intraprendere per poter cominciare gli accertamenti veri e propri prevede misure di tutela per il contribuente che non è lasciato certamente alla mercé della verifica delle Entrate. Il percorso comincia con una prima selezione automatica che elabora una prima lista. I contribuenti nella lista sono coloro che hanno dei redditi dichiarati non in linea con quelli attesi dell’amministrazione. La lista è solamente il primo passo, successivamente infatti gli uffici periferici iniziano una vera e propria selezione. I contribuenti da verificare saranno convocati per spiegazioni e solo se queste saranno insufficienti l’ufficio proseguirà nell’iter e aprirà un procedimento di controllo che richiederà una rettifica concreta.
I conti correnti e i singoli movimenti dei contribuenti non sono a diretta disposizione del fisco, lo saranno, in dettaglio, solo successivamente alla procedura autorizzativa che può essere attivata solo quando il fisco certifica delle reali anomalie che facciano pensare che il contribuente infranga le regole fiscali. Nell’iter del redditometro le indagini finanziarie e l’analisi dei conti si possono realizzare o nella fase del confronto con il contribuente per libera scelta di quest’ultimo o per iniziativa del Fisco. L’iniziativa delle Entrate, però, ci sarà esclusivamente se il contribuente non sarà stato in grado di provare la correttezza del proprio reddito rispetto alle spese sostenute.
Il contribuente deve evitare di pensare che valga la regola del più spendo e più rischio di essere controllato dal Fisco. Il redditometro non è uno strumento che mira a colpire i consumi ma tenta di ricostruire mediante un campione di essi, l’effettiva capacità contributiva, o per dirla ancora più semplicemente il tenore di vita realmente sostenuto. Quindi smettere di consumare o di spendere non ha senso al fine di scampare i controlli; infatti l’obiettivo è proprio quello di agire sulla leva dei redditi, inducendo chi dichiara poco a indicare in Unico imponibili più alti.
Da sfatare anche il mito della conservazione degli scontrini; è un’attività assolutamente inutile. C’è un aspetto decisivo da considerare: gli scontrini non sono nominativi e quindi non attestano chi ha speso una determinata cifra. L’unica eccezione può essere rappresentata dalle spese mediche o farmaceutiche per cui lo scontrino è “parlante” e serve ad accedere alla detrazione in dichiarazione dei redditi.
Storia differente, invece, per gli acquisti importanti o di maggior valore, per i quali conservare la documentazione (è il caso, per esempio, di rogiti per un immobile o contratti di acquisto di auto) insieme ai mezzi di pagamento può essere utile in caso di richiesta del Fisco. Inoltre per i beni non presenti già in Anagrafe tributaria le vendite oltre i 3.600 euro Iva inclusa sono comunicate con lo spesometro.
La tracciabilità dei pagamenti è un valido alleato cui affidarsi in caso di controlli con il redditometro. Poter certificare e contestualizzare i movimenti realizzati su conto corrente o i pagamenti mediante bancomat, carta di credito o assegno può rivelarsi una carta vincente in un eventuale contraddittorio con gli uffici. Anche qui però vale la regola che il troppo stroppia; l’uso di denaro contante – nei limiti della soglia consentita di 999,99 euro – non è sicuramente a rischio per i piccoli acquisti quotidiani: dalla spesa al mercato o al supermercato.
Ricordiamo che il contribuente, in caso di incompatibilità del proprio reddito dichiarato, non è costretto a dimostrare con prove documentali la correttezza della propria posizione fiscale; contribuenti e fisco, infatti, sono sulla stesso piano ed è compito dell’amministrazione attesta e motivare ciò che pretende. Sicuramente il contribuente potrà dare elementi che, anche in virtù di semplici ipotesi, dimostrino la correttezza dei propri redditi dichiarati rispetto alle spese effettuate.
Per alcune spese, ad esempio per quelle correnti, per le spese alimentari e per gli acquisti di abbigliamento il redditometro si fonda non solo sulle spese effettivamente sostenute, ma anche su valori che provengono da studi statistici economici (“le cosidette spese calcolate su medie Istat). Queste spese, tuttavia, come ha recentemente ricordato la stessa amministrazione finanziaria non partecipano alle selezione del contribuente da controllare e verranno impiegate dal Fisco solo nella fase di accertamento analitico quando il contribuente non sarà stato in grado di fornire sufficienti elementi che facciano ragionevolmente pensare che le spese effettivamente sostenute siano in linea con i redditi dichiarati.
Il Fisco può certamente fare affidamento alle banche dati e sono 128 quelle interrogabili dall’amministrazione finanziaria. Il timore maggiore, quindi, è quello di essere sotto un “Grande fratello” fiscale, capace di ricostruire ogni attimo della vita tributaria di ciascun contribuente. In pratica, però, non è così, perché come evidenziato dalla commissione parlamentare di vigilanza sull’Anagrafe tributaria nella scorsa legislatura, i database del Fisco fanno molta fatica a comunicare tra loro in quanto i dati immessi sono disomogenei o “parlano” addirittura lingue diverse. Una situazione paradossale se si pensa che con la nuova Superanagrafe dei conti correnti e con la comunicazione dei beni d’impresa concessi ai soci il flusso e la mole di dati a disposizione del Fisco è destinata ad aumentare.
Una preoccupazione largamente diffusa riguarda i metodi di calcolo degli investimenti e nella fattispecie degli incrementi patrimoniali. In effetti la norma stabilisce che se il contribuente acquista una casa o un altro immobile (il discorso, però, può valere per qualsiasi altra spesa di investimento) nel periodo d’imposta sottoposto ad accertamento questo rileva quale spesa interamente in detto periodo d’imposta anche se non è così.
La determinazione degli investimenti considera i disinvestimenti e gli investimenti dei quattro anni precedenti presenti in Anagrafe tributaria. Il contribuente potrà dimostrare le sua coerenza fiscale fornendo la prova della formazione della provvista necessaria all’acquisto del bene e non anche delle relative fonti di reddito.
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