Il diritto di autodeterminazione esterna, cui ci si riferisce, consiste appunto nel diritto di ottenere l’indipendenza o di associarsi a un altro Stato esistente: secondo la prevalente dottrina del diritto internazionale, i suoi requisiti sono essenzialmente due, o la dominazione coloniale o l’occupazione straniera con la forza, occupazione che non può andare indietro nel tempo oltre la seconda guerra mondiale. Invocare il parere della Corte Internazionale di Giustizia del 22 luglio 2010 sulla indipendenza del Kosovo non prova l’assunto, in quanto il caso in esso esaminato non è analogo a quello del Veneto.
Il parere, infatti, non affronta l’esistenza di un diritto alla secessione (o all’indipendenza secondo un capzioso gioco di parole) come è quello che invocherebbe il Veneto dall’Italia, bensì la questione dell’eventuale esistenza di un divietoapplicabile alla già avvenuta dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, cioè se tale dichiarazione fosse stata adottata o meno in violazione del diritto internazionale, non quindi se ne fosse legittimata. Il parere ha espressamente affermato in un obiter dictum come le dichiarazioni di indipendenza possono essere considerate lecite anche al di fuori dei due casi classici ricordati sopra, ma tale riferimento non può essere considerato decisivo. La scarsità della prassi e l’assenza di una manifestazione di opinio iuris tale da giustificare una evoluzione del diritto di autodeterminazione rendono problematica l’estensione ad altri casi. L’indipendenza del Veneto, comunque, non sembra rientrare in nessuno dei casi contemplati né vecchi né nuovi, non essendo né una colonia, né soggetta a occupazione militare e nemmeno a forme di oppressione che possano giustificare una secessione-rimedio unilaterale da uno Stato esistente. Non ha qualità analoghe di minoranza e, almeno finora, non si è verificata una dichiarazione unilaterale di indipendenza seguita a una guerra come quella del Kosovo, che possa essere giustificata ex post almeno come non contraria al diritto internazionale. Ne potrebbe essere accolto il riferimento al carattere pre-costituzionale del diritto di autodeterminazione dei popoli, che entrerebbe nell’ordinamento interno in virtù del riconoscimento dei diritti inviolabili da parte dell’art. 2 della Carta costituzionale, dal momento che esso, come tutti gli altri diritti riconosciuti dalla norma costituzionale ora invocata, richiede sempre una relazione di compatibilità dialettica con il dettato della Carta (sent. n. 388/1999 Corte cost.) e necessita di una fonte-atto interna, nel nostro caso la legge regionale 19 giugno 2014, n. 16 (istitutiva del referendum consultivo regionale sull’indipednenza del Veneto e già impugnata dal Governo della Repubblica davanti alla Corte costituzionale), per la sua azionabilità.
Appare, inoltre, fuori luogo il richiamo al “popolo veneto” da parte della legge regionale n. 16/2014 (e già prima lo stesso Statuto, art. 1, comma 2,) quasi a volerne riconoscere la pre-esistenza giuridica e politica. Ora, se sul punto si può riconoscere che il riferimento al popolo veneto non è cosa diversa da quello che si può leggere in altri Statuti regionali (Sardegna e Sicilia parlano rispettivamente di popolo sardo e siciliano), da intendersi quindi come comunità ossia insieme di persone aventi in comune orgine, tradizioni, lingua e rapporti sociali, la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 496/2000, ha precisato in modo inequivocabile che il popolo “non può che essere uno solo, quello che dà forma all’unità politica della Nazione”. Sostenere l’assenza, tanto nel diritto costituzionale interno, quanto nel diritto internazionale pubblico, di una definzione di popolo non è così determinante. Infatti, proprio questa mancanza consente di adattarne il concetto alle articolazioni collettive esistenti all’interno dello Stato territoriale. In questo caso, però, non sarà sufficiente una definzione di popolo veneto ex lege, a livello statutario o legislativo, ma bisognerà dimostrare oggettivamente che si è in presenza di un gruppo qualificato e distinto, rispetto alla comunità nazionale italiana, cui sia possibile riconnettere diritti che si riferiscono a beni giuridici irriducibilmente collettivi. Peraltro, in diritto non sempre sono necessarie classificazioni definitorie che spesso vengono presupposte dal sistema. Quando l’art. 1 della Costituzione afferma che la sovranità appartiene al popolo, non fa altro che ribadire la forma democratica dello Stato-ordinamento e affermare com’è solamente all’insieme dei cittadini che va attribuito l’esercizio di alcuni dei poteri più elevati, quelli cioè che condizionano la direzione e lo svolgimento degli altri.
Secondo i sostenitori della tesi del referendum consultivo regionale sull’indipendenza, quando il Parlamento italiano ha reso esecutivo e ha autorizzato la ratifica del Tratto tra l’Italia e la Repubblica socialista federale di Jugoslavia, il c.d. Trattato di Osimo del 1975, ha proceduto alla cessione di parti del territorio nazionale a uno Stato estero proprio in violazione della norma costituzionale che sancisce l’indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.). Ora, a parte il fatto che l’accordo di Osimo (Paladin) non ha comportato alcuna modifica territoriale, confermando il confine tra Italia e Jugoslavia in coincidenza della linea di demarcazione fra la ex zona A e la ex zona B, la norma dell’art. 80 della Costituzione, che autorizza espressamente le Camere a poter dare esecuzione a Trattati internazionali che specificatamente importino “variazioni del territorio”, opera su un piano diverso da quello dell’art. 5. Mentre, infatti, come insegna Esposito, in base all’art. 5 Cost. è illegale ogni attività che entro lo Stato tenda alla divisione della Repubblica italiana in due o più Stati, o alla separazione di una o più parti d’Italia dallo Stato-Ordinamento, l’art. 80 richiama il contesto internazionale, riferendosi a quegli atti di natura pattizia volti a determinare una ridefinizione dei confini territoriali o anche del mare territoriale a seguito di una guerra (Trattati di pace) o di una conquista territoriale di altro tipo, presupponendo quindi la guerra quale fatto costitutore di nuove sovranità statali.
Da ultimo, rivendicare una indipendenza del “Veneto” dall’Italia indicando per il nuovo Stato i confini della attuale Regione del Veneto, e richiamarsi nel contempo al plebiscito per l’annessione del 1866 (nella risoluzione n. 44/2012 del Consiglio regionale del Veneto) e alla sua asserita nullità appare contraddittorio. Infatti i territori annessi nel 1866, un tempo appartenenti alla Repubblica di Venezia, poi al regno Lombardo-Veneto, vanno ben oltre il territorio regionale. Per esempio non vi è compreso, se non in piccola parte, il Friuli Veneto (attuali Province di Udine e Pordenone), mentre d’altro canto vi sono parti dell’attuale Veneto che non hanno partecipato al plebiscito, come l’Ampezzo oggi facente parte della Provincia di Belluno. Tutti gli abitanti dei territori annessi nel 1866 dovrebbero avere lo stesso diritto di autodeterminazione, ed è paradossale rivendicarlo in modo assoluto solo a chi si trova entro confini tracciati solo dopo dall’Italia, escludendo tutti gli altri. Ciò rende ancora più evidente il carattere del tutto estrinseco del collegamento fra la rivendicazione del Veneto indipendente e la Repubblica di Venezia, con cui la memoria storica è utilizzata per dare lustro al nuovo Stato veneto, tutto incentrato sulla terraferma, che sarebbe in tutto diverso dalla serenissima Dominante.
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