Volendo sintetizzare, il caso affrontato era riferito ad un marito che decideva di adottare la figlia di cinque anni, avuta dalla maglie in seguito ad una relazione con un altro uomo prima del matrimonio.
Il marito aveva convissuto con la piccola sin dalla nascita, mentre il padre naturale non si era mai interessato della figlia.
Posta la questione in questi termini, l’intento di adottare la bimba assumeva un rilievo importante, dal punto di vista della famiglia e della sua coesione.
In realtà, il padre naturale ha ritenuto di essere leso da una prospettiva di questo genere, tanto da opporsi in giudizio all’accoglimento del ricorso per l’adozione, sostenendo, che fin dai primi momenti della gravidanza, a causa della scelta della donna di riprendere la convivenza con il coniuge, la stessa aveva ostacolato gli incontri tra padre naturale e figlia.
Come si può apprezzare da queste pochissime battute, la questione è sicuramente controversa e rende difficile prendere una posizione.
Analizzando l’operato dei giudici chiamati a risolvere il caso si può “toccare con mano” la difficoltà interpretativa ed applicativa delle norme di riferimento.
Infatti, mentre il Tribunale dei minorenni di Roma ha accolto l’istanza del ricorrente, disponendo l’adozione da parte dello stesso della minore, la Corte di appello di Roma, in riforma della decisione appellata, ha respinto la domanda di adozione.
Nel primo caso, il Tribunale ha ritenuto decisivo l’elemento della non convivenza del padre naturale con la figlia e, pertanto, il non esercizio in concreto della potestà genitoriale. Nel secondo caso, al contrario, la Corte ha affermato la rilevanza del diniego di consenso manifestato dal padre naturale.
La vicenda è stata risolta con l’intervento della Cassazione che ha ritenuto di dover porre al centro della questione l’interesse prevalente della prole rispetto alle frequenti situazioni di disgregazione del rapporto di coppia.
In questa prospettiva, la legge 54 dell’8 febbraio 2006 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) ha fissato un principio importantissimo.
All’art. 4, comma 2, si stabilisce che l’esercizio della potestà genitoriale è esercitato da entrambi i genitori, indipendentemente da circostanze esterne ed eventuali, quali il rapporto di coniugio, la crisi di coppia, la convivenza del genitore con il minore.
Se non vi è convivenza non è possibile escludere l’esercizio della potestà genitoriale, perché quest’ultima sopravvive proprio alla crisi di coppia…
A questo proposito, la Cassazione con la sentenza del 10 maggio 2011 ha infine sostenuto che “la cessazione della convivenza tra i genitori naturali non conduce alla cessazione dell’esercizio della potestà, perché la potestà genitoriale è ora esercitata da entrambi i genitori, salva la possibilità per il giudice di attribuire a ciascun genitore il potere di assumere singolarmente decisioni sulle questioni di ordinaria amministrazione”.
Contrariamente, la madre della bambina, in sede di ricorso, aveva sostenuto il venir meno della potestà genitoriale del padre non convivente ai sensi dell’articolo 317 bis del cod. civ. (“al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui … Se i genitori non convivono l’esercizio della potestà spetta al genitore col quale il figlio convive”).
La Suprema Corte non ha ritenuto decisivo questo argomento, affermando, come detto, che la potestà genitoriale sopravvive alla crisi di coppia.
Pertanto, non venendo meno l’esercizio della potestà in caso di non convivenza, il mancato assenso all’adozione da parte del padre naturale diventa decisivo e preclusivo, impedendo di fatto alla bambina di avere un secondo padre.
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