In presenza di violazioni che hanno ad oggetto la abusiva diffusione di opere dell’ingegno l’unico onere di cui può essere gravato il titolare del diritto è la comunicazione di elementi idonei a consentire la identificazione dell’opera: gli URL non sono le opere ma solo i luoghi virtuali dove le stesse sono collocate (peraltro, autonomamente, dallo stesso provider).
Il collegio giudicante romano ha infatti ritenuto che “tale dato tecnico non coincide con i singoli contenuti lesivi presenti nella piattaforma digitale, né tale dato tecnico costituisce presupposto indispensabile per provvedere all’individuazione dei medesimi contenuti, ma sopra tutto, e ciò che è più rilevante, nessuna base giuridico-normativa può ricollegarsi a siffatta pretesa collaborativa di Break Media, posto che l’unico dato di fatto decisivo in ordine all’insorgenza della responsabilità del provider (in caso di segnalazione degli illeciti) è quello dell’effettiva conoscenza, condizione assolutamente soddisfatta nel caso di specie in relazione alla due distinte diffide inviate alla stessa società da RTI, con i titoli identificati dei programmi diffusi arbitrariamente, peraltro facilmente individuabili proprio in virtù dell’intimo collegamento del marchio collegato a tali prodotti audio visivi, tali cioè da non lasciare alcun margine di incertezza sulla loro individuazione, senza necessità di altri dati tecnici che, come detto, non trovano necessità di essere forniti dal titolare del diritto leso né in alcuna normativa del settore, tanto meno nelle numerose decisioni giurisprudenziali ampiamente richiamate dalla stessa appellante”.
In effetti nessuna fonte normativa impone al titolare dei diritti autorali la comunicazione del dato tecnico rappresentato dagli URL: sia le norme generali del codice civile che le norme speciali dettate dalla Direttiva 2000/31/CE e D. Lgs. 70/2003 confermano la sufficienza di una qualsiasi notizia o comunicazione -anche non scritta- proveniente dal titolare dei diritti o da terzi e con la quale si denunziano le violazioni.
La norma italiana e quella europea si riferiscono, infatti, a concetti quali “non sia effettivamente al corrente”, ovvero “non appena al corrente di tali fatti” (entrambi riferiti all’intermediario: v. l’art. 14 Direttiva cit. e art. 16 d. lgs. 70/2003: comma I lettere a-b) ed alla conoscibilità dell’illecito in base ad elementi secondari, visto che bastano anche “fatti o circostanze che rendano manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione” (v. punto b del comma 1 dell’art. 14 Direttiva cit. e art. 16 punto “b” del d. lgs. 70/2003).
Muovendo dal dato normativo (considerando 48 Direttiva cit. il provider deve “adempiere al dovere di diligenza che è ragionevole attendersi da loro ed è previsto dal diritto nazionale, al fine di individuare e prevenire taluni tipi di attività illecite”), la Corte Europea ha stabilito che il prestatore del servizio di memorizzazione non può beneficiare delle deroghe al regime ordinario di responsabilità se “è al corrente” di fatti o circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’informazione memorizzata tenuto conto del “dovere di diligenza che è ragionevole” attendersi da tale operatore (sentenza C-324/09 L’Oréal c. eBay, punti 120-122 e 124)
Ed é la stessa giurisprudenza della Corte UE, come rileva la Corte d’Appello di Roma, a confermarlo: così nella sentenza del 12 luglio 2011 (C‑324/09, L’Oréal c. eBay) il giudice europeo ha chiarito che “è sufficiente, affinché il prestatore di un servizio della società dell’informazione non possa fruire dell’esonero dalla responsabilità previsto all’art. 14 della direttiva 2000/31, che egli sia stato al corrente di fatti o di circostanze in base ai quali un operatore economico diligente avrebbe dovuto constatare l’illiceità di cui trattasi e agire in conformità del n. 1, lett. b), di detto art. 14” (punto 120). Anche l’Avvocato generale, nelle sue conclusioni, ha evidenziato che “l’art. 14, n. 1, lett. a), menziona le «attività» come uno degli oggetti della conoscenza effettiva. Un’attività in corso riguarda il passato, il presente e il futuro. Pertanto, per quanto riguarda lo stesso utente e gli stessi marchi, il gestore di un mercato online è «effettivamente al corrente» se la medesima attività prosegue sotto forma di annunci successivi e può anche vedersi richiedere di impedire l’accesso alle informazioni che l’utente pubblicherà in futuro” (punti 167/168 delle conclusioni dell’AG).
Mutatis mutandis, quindi, il provider ben può essere destinatario di un ordine che gli inibisca la pubblicazione di video “successivi” e l’accesso a video che “l’utente pubblicherà in futuro”.
Correttamente quindi la Corte d’Appello di Roma, come aveva anche sottolineato la Sezione Impresa del Tribunale di Roma, evidenzia come tutti i video oggetto di pubblicazione abusiva recano in modo evidente i loghi identificati dei marchi dell’operatore televisivo, rendendoli di immediata identificabilità.
Al principio di diligenza, a cui è tenuto l’operatore per andare esente da responsabilità, la Corte UE ha fatto ricorso più recentemente con sentenza del 8 settembre 2016 (C‑160/15, GS Media, punto 47) e, nuovamente, con sentenza del 8 dicembre 2017 (C‑527/15, Stichting Brain, punto 69) dove si afferma che “Tale comportamento (del provider ndr) deve essere valutato tenendo conto, da un lato, dello scopo di lucro (se sussiste, si presume iuris tantum che l’interessato sia consapevole del fatto che l’opera è stata pubblicata in rete illegittimamente) e, dall’altro, della circostanza che non si sappia, e non si possa ragionevolmente sapere, che la pubblicazione su Internet non è autorizzata”.
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