Attenzione: non che ciò venga vietato “tout court” (e d’altra parte nemmeno lo potrebbe fare, la Cassazione), ma la scelta delle tabelle di Milano quali criterio di riferimento a cui parametrare la liquidazione effettuata tenendo conto di altri parametri è ormai inequivocabile.
Non solo: leggendo la sentenza n. 14402 del 30 giugno 2011 (riportata di seguito), si può vedere come la Corte arrivi ad un vera e propria dichiarazione di adesione al criterio adottato dalle tabelle milanesi dopo l’intervento delle Sezioni Unite del 2008 (nn. 26972 e ss.).
Infatti le tabelle milanesi vengono descritte come “le più idonee ad essere assunte quale criterio generale di valutazione” e pertanto ne viene caldeggiata l’adozione anche al fine di evitare trattamenti diseguali nell’ipotesi di medesimi danni (argomento questo che, nel mio piccolo, sostengo da danni, fino ad ora senza particoalre fortuna).
Come anticipato sopra, rimane ferma la facoltà (ma sarebbe meglio parlare di dovere) del giudice di allontanarsi dalle stesse, al fine di personalizzare il caso concreto, e sempre che dell’allontanamento venga fornita adeguata motivazione.
Un altro punto trattato è quello della risarcibilità dei pregiudizi esistenziali.
Premessa la nota antipatia (terminologica?) per il “danno esistenziale”, ribadita l’ormai “classica” definizione di danno non patrimoniale di ampio respiro, la sentenza in esame si caratterizza per essere una tra quelle post 2008 che più si soffermano sulla risarcibilità di questi pregiudizi.
Anzitutto, da notare la definizione di danno (rectius: pregiudizio) esistenziale, vale a dire il “pregiudizio del fare areddituale del soggetto determinante una modifica peggiorativa della personalità da cui consegue uno sconvolgimento dell’esistenza”.
Si tratta cioè dello sconvolgimento (che deve essere allegato e provato) dell’esistenza relativamente all’alterazione del modo di rapportarsi con gli altri, all’interno come all’esterno del contesto familiare, che si rifletta nell’alterazione della personalità del leso sì da portarlo a scelte di vita differenti.
Il tutto senza peraltro sfociare in patologia medicalmente accertabile, nel qual caso rientreremmo invece nel danno (sempre non patrimoniale ma) biologico.
Per quanto riguarda la liquidazione del danno, poi, è necessario che vengano adeguatamente valorizzati, oltre agli eventuali aspetti cd. relazionali, anche quelli relativi al cambiamento peggiorativo della vita/personalità, curando che non vi sia un indebito assorbimento dei secondi nei primi.
A questo punto non resta che attendere, per vedere se i giudici di merito si adegueranno a questa indicazione.
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Cass. civ. Sez. III, Sent., 30-06-2011, n. 14402
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PREDEN Roberto – Presidente
Dott. **************** – Consigliere
Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere
Dott. ****************** – Consigliere
Dott. SCARANO **************** – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
******, considerato domiciliato “ex lege” in ROMA, la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli unificato avvocati ******, ***** giusta delega in atti; – ricorrente –
contro
*****, elettivamente domiciliato in ROMA, *****, presso lo studio dell’avvocato *****, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato *****; – controricorrente –
e contro
*****, *****; – intimati –
e contro
***** in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, *****, presso lo studio dell’avvocato *****, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ***** giusta delega in calce al ricorso notificato; – resistente –
avverso la sentenza n. 949/2005 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, 1^ SEZIONE CIVILE, emessa il 12/10/2005, depositata il 03/11/2005, R.G.N. 1002/2002;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/02/2011 dal Consigliere Dott. ************************;
udito l’Avvocato ***** per delega dell’Avvocato *****;
udito l’Avvocato *****;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore ******************************* che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 3/11/2005 la Corte d’Appello di Brescia respingeva il gravame interposto dal sig. ***** nei confronti della pronunzia Trib. Cremona 16/7/2001 di condanna del sig. *****, della società ***** e della compagnia assicuratrice ***** al pagamento, in solido (oltre che della somma di L. 19.053.382 al chiamato in causa *****), della somma di L. 906.442.000 – con interessi e rivalutazione – in suo favore, a titolo di risarcimento dei danni sofferti in conseguenza di sinistro avvenuto il *****, allorquando con la sua moto Honda collideva con automezzo Fiat condotto dal *****, riportando lesioni gravissime (perdita dell’arto inferiore destro, dell’arto superiore sinistro, con limitazione del polso destro), con una percentuale di invalidità permanente dell’85%, ITT per 13 mesi e perdita totale della capacità lavorativa, e conseguente impossibilità di proseguire la propria attività di camionista nonchè di trovare altra occupazione confacente al suo grado d’invalidità presso, l’impresa alle cui dipendenze prestava servizio.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito il ***** propone ora ricorso per cassazione, affidato a 6 motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso il T., che ha presentato anche memoria.
Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.
Motivi della decisione
Con il 1^ motivo il ricorrente denunzia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole dell’erroneità dell’operata ricostruzione del sinistro, risultando nell’impugnata sentenza affermato che egli proveniva con il suo motoveicolo da destra laddove è rimasto in causa provato che stava viaggiando in direzione opposta all’autoveicolo che omise di concedergli la precedenza spettantegli.
Con il 2^ motivo denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; nonchè omessa motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Con il 3^ motivo denunzia insufficiente/contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che la corte di merito abbia erroneamente ritenuto operare nel caso l’art. 2054 c.c., laddove dalle emergenze processuali risulta invero la esclusiva responsabilità del T. nella causazione del sinistro.
Lamenta che contraddittoriamente il giudice dell’appello afferma essere rimasto positivamente in giudizio accertato che viaggiasse a velocità eccessiva, a fronte delle risultanze istruttorie diversamente deponenti al riguardo, nè essendo stata disposta perizia cinematica.
Si duole che la corte di merito abbia “ritenuto che anche nel caso di specie la velocità fosse eccessiva, tenendo a mente tale velocità (limite dei 50 Km/h) sulla base della asserzione che l’incrocio è di per sè comunque pericoloso”, non ponendo invero “la necessaria attenzione alle risultanze delle foto in atti e delle planimetrie, che pure vengono assunte a supporto argomentativo”.
Lamenta che il giudice dell’appello “perviene a considerazioni opposte a quelle dei verbalizzanti, senza dar conto del motivo per cui ritiene di discostarsi dalle valutazioni degli operatori della strada … . La sentenza ritiene, senza fornire alcuna motivazione, richiamandosi alla correttezza del Tribunale, che la velocità fosse troppo elevata affermando che la circostanza è evidente dalle fotografie in atti, dai gravissimi danni subiti dagli automezzi, dalla posizione assunta dall’attore catapultato, a 30 mt. … . Il ragionamento seguito dal giudice di appello è inficiato da assoluta genericità e superficialità Costituisce … mera petizione di principio l’affermare, sulla base di una mera impressione visiva, relativa alle fotografie, che la velocità del motociclo era elevata e ciò a prescindere dal fatto che … non essendo presente sulla S.S. ***** un particolare limite di velocità (trattandosi di strada a scorrimento veloce che collega ***** la velocità prudenziale del motociclista andava raffrontata al limite elastico che impone di moderare la velocità in corrispondenza di un incrocio, su una strada in cui non era presente alcun limite di velocità. La valutazione della Corte di Merito avrebbe dovuto tenere conto dei rilievi svolti nel motivo d’appello, o motivare esaurientemente per discostarsene; al contrario in sentenza non viene spesa una riga su un possibile raffronto fra la velocità che il motociclo avrebbe potuto tenere del tutto legittimamente (limite dei 90 Km/h per le strade extraurbane) e la possibile velocità asseritamente tenuta che non è risultata provata”.
Con il 4^ motivo il ricorrente denunzia omessa motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Lamenta che “la Corte … non ha ritenuto di spendere più di tre righi (pag. 7 ric 17 ss.)” sulla censurata erroneità del rilievo assegnato dal giudice di prime cure all’assenza di tracce di frenata sull’asfalto, laddove “una spiegazione plausibile era che l’inizio della manovra dell’autoveicolo era avvenuto quando la moto era così vicina da non consentire il tempo necessario (tempo di reazione 1-2 secondi) per attivare il sistema frenante”.
Con il 5^ motivo il ricorrente denunzia omessa motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che non si sia dalla corte di merito ravvisata l’illogicità dell’assunto del giudice di prime cure in ordine alla sussistenza nel caso di nesso di causalità “tra la condotta del motociclista e il grado di responsabilità attribuitogli”, laddove non è stato provato che “ove la velocità del motociclo fosse stata inferiore l’urto avrebbe potuto essere evitato”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono in parte inammissibili e in parte infondati.
Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, i motivi posti a fondamento dell’invocata cassazione della decisione impugnata debbono avere i caratteri della specificità, della completezza, e della riferibilità alla decisione stessa, con – fra l’altro – l’esposizione di argomentazioni intelligibili ed esaurienti ad illustrazione delle dedotte violazioni di norme o principi di diritto, essendo inammissibile il motivo nel quale non venga precisato in qual modo e sotto quale profilo (se per contrasto con la norma indicata ovvero con l’interpretazione della stessa fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina) abbia avuto il luogo la violazione nella quale si assume essere incorsa la pronunzia di merito.
Sebbene l’esposizione sommaria dei fatti di causa non deve necessariamente costituire una premessa a sè stante ed autonoma rispetto ai motivi di impugnazione, è tuttavia indispensabile, per soddisfare la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che il ricorso, almeno nella parte destinata alla esposizione dei motivi, offra, sia pure in modo sommario, una cognizione sufficientemente chiara e completa dei fatti che hanno originato la controversia, nonchè delle vicende del processo e della posizione dei soggetti che vi hanno partecipato, in modo che tali elementi possano essere conosciuti soltanto mediante il ricorso, senza necessità di attingere ad altre fonti, ivi compresi i propri scritti difensivi del giudizio di merito, la sentenza impugnata ed il ricorso per cassazione (v. Cass., 23/7/2004, n. 13830; Cass., 17/4/2000, n. 4937; Cass., 22/5/1999, n. 4998).
E’ cioè indispensabile che dal solo contesto del ricorso sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice a quo (v. Cass., 4/6/1999, n. 5492).
Quanto al vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 va invero ribadito che esso si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (in particolare cfr. Cass., 25/2/2004, n. 3803).
Tale vizio non consiste pertanto nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito (v. Cass., 14/3/2006, n. 5443; Cass., 20/10/2005, n. 20322).
La deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce infatti al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (v. Cass., 7/3/2006, n. 4842;. Cass., 27/4/2005, n. 8718).
Orbene, i suindicati principi risultano non osservati dall’odierno ricorrente.
Già sotto l’assorbente profilo dell’autosufficienza, va posto in rilievo come il medesimo faccia richiamo ad atti e documenti del giudizio di merito (es., ai rilievi della Polizia stradale di Pizzighettone, alla C.T.U., alla sentenza di 1 grado, agli “atti difensivi di tutte e due le parti”, all’”ordinanza ex art. 186 quater”, alle “foto in atti”, alle “planimetrie”, alla “rappresentazione grafica con le misure riportate”), di cui lamenta la mancata o erronea valutazione, limitandosi a meramente rinviare agli atti del giudizio di merito, senza invero debitamente riprodurli nel ricorso.
A tale stregua non pone questa Corte nella condizione di effettuare il richiesto controllo (anche in ordine alla tempestività e decisività dei denunziati vizi), da condursi sulla base delle sole deduzioni contenute nel ricorso, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative, non avendo la Corte di legittimità accesso agli atti del giudizio di merito (v. Cass., 24/3/2003, n. 3158; Cass., 25/8/2003, n. 12444; Cass., 1/2/1995, n. 1161).
Va altresì (in particolare con riferimento al 1 motivo) osservato che il ricorrente non formula invero denunzia di error in procedendo ex art. 112 c.p.c., nè censura debitamente le risultanze probatorie ex artt. 115 e 116 c.p.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non indicando quale prova, e sotto quale profilo, sarebbe stata nel caso non o mal valutata.
Va per altro verso sottolineato che giusta consolidato principio la ricostruzione della dinamica di un incidente stradale, delle condotte poste in essere dai soggetti coinvolti, della sussistenza della relativa colpa (ovvero del loro atteggiamento doloso) ed efficienza causale, costituisce invero giudizio di fatto, spettante al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione (v. Cass., 22/5/2006, n. 11947; Cass., 17/10/1984, n. 5240; Cass., 8/23/1974, n. 364).
Risponde del pari a consolidato principio che quando la nomina di un consulente tecnico non sia imposta dalla legge in considerazione della particolare natura della controversia, il giudice ha la facoltà di fare ricorso, anche di ufficio, al parere di un suo perito per le valutazioni che richiedono specifiche conoscenze tecniche (v. Cass., 14/02/2006, n. 3187).
La consulenza tecnica d’ufficio non costituisce pertanto in linea di massima mezzo di prova bensì strumento di valutazione della prova acquisita, potendo assurgere invero al rango di fonte oggettiva di prova quando si risolve nell’accertamento di fatti rilevabili unicamente con l’ausilio di specifiche cognizioni o strumentazioni tecniche (v. Cass., 19/01/2006, n. 1010; Cass., 5/5/2005, n. 9353;Cass., 1/04/2004, n. 6396).
Solamente in tal caso viola allora la legge processuale il giudice del merito che ne rifiuta l’ammissione sotto il profilo del mancato assolvimento, da parte dell’istante, dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 cod. civ. (v. Cass., 21/4/2005, n. 8297).
Non ricorrendo tale eccezionale ipotesi, il provvedimento che dispone la consulenza tecnica rientra invero nel potere discrezionale del giudice del merito, ed è incensurabile in sede di legittimità in presenza di congrua motivazione (v. Cass., 14/11/2008, n. 27247), che può anche essere implicitamente desumibile (anche) dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice (v. Cass., 5/7/2007, n. 15219), sicchè quando il giudice dispone di elementi istruttori e di cognizioni proprie, integrati da presunzioni e da nozioni di comune esperienza, sufficienti a dar conto della decisione adottata, non può essere censurato il mancato esercizio di quel potere, mentre se la soluzione scelta non risulti adeguatamente motivata, è sindacabile in sede di legittimità sotto l’anzidetto profilo (v. Cass., 3/1/2011, n. 72).
Ove la C.T.U. venga disposta, vige al riguardo il principio judex peritus peritorum, in virtù del quale è consentito al giudice di merito disattendere le argomentazioni tecniche svolte dal consulente tecnico d’ufficio nella propria relazione.
Ciò sia quando le stesse siano intimamente contraddittorie, sia quando il giudice sostituisca ad esse altre argomentazioni tratte da proprie personali cognizioni tecniche, unico onere in entrambi tali casi essendo quello di un’adeguata motivazione, esente da vizi logici ed errori di diritto (v. Cass., 18/11/1997, n. 11440), ben potendo il giudice di merito, per la soluzione di questioni di natura tecnica o scientifica, fare ricorso alle conoscenze specialistiche che abbia acquisito direttamente attraverso studi o ricerche personali (v. Cass., 26/6/2007, n. 14759).
Orbene, la corte di merito ha motivato in ordine alla mancata disposizione nel caso di C.T.U. volta a ricostruire la dinamica del sinistro ritenendo quest’ultima “sufficientemente chiara”, e ha posto a base della propria decisione altri mezzi di prova (es., fotografie, planimetrie, disamina dei danni riportati dai mezzi coinvolti, ecc.).
Laddove il ricorrente non spiega invero le ragioni per le quali i fatti in esame non sarebbero altrimenti accertabili che con C.T.U., e in palese violazione del principio di autosufficienza non propone idonei argomenti a sostegno della mossa censura.
Il vizio di motivazione non può d’altro canto essere utilizzato per far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte, non valendo a proporre un pretesamente migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice (v. Cass., 9/5/2003, n. 7058).
Secondo un del pari risalente orientamento di questa Corte, al giudice di merito non può nemmeno imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione di tutte le tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che, come nella specie, il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente, non di tutte le prospettazioni delle parti e di tutte le emergenze istruttorie, bensì di quelle ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo.
In altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse (v. Cass., 9/3/2011, n. 5586).
Emerge dunque a tale stregua come, lungi dal denunziare vizi della sentenza gravata rilevanti sotto i ricordati profili, le deduzioni dell’odierno ricorrente, oltre a risultare formulate secondo un modello difforme da quello delineato all’art. 366, 1 co. n. 4, c.p.c., in realtà si risolvono nella mera doglianza circa l’asseritamente erronea attribuzione da parte del giudice del merito agli elementi valutati di un valore ed un significato difformi dalle sue aspettative (v. Cass., 20/10/2005, n. 20322), e nell’inammissibile pretesa di una lettura dell’asserto probatorio diversa da quella nel caso dal medesimo operata (cfr. Cass., 18/4/2006, n. 8932).
Per tale via, lungi dal censurare la sentenza per uno dei tassativi motivi indicati nell’art. 360 c.p.c., in realtà sollecita, contra ius e cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimità, un nuovo giudizio di merito, in contrasto con il fermo principio di questa Corte secondo cui il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale possano sottoporsi alla attenzione dei giudici della Corte di Cassazione elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass., 14/3/2006, n. 5443).
Con il 6^ motivo il ricorrente denunzia “omessa/insufficiente/contraddittoria motivazione” su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si duole che la corte di merito abbia immotivatamente fatto applicazione, con “rigido automatismo, nella valutazione del danno biologico”, delle “tabelle Bresciane che comportavano un divario di valutazione di circa L. 250 milioni rispetto all’applicazione di quelle Milanesi“.
Lamenta che tale giudice nulla ha indicato in ordine alla mossa censura circa la “eccessiva ampiezza dello scaglione, 20 anni” adottato dalle tabelle Bresciane, nonchè dall’essere il sistema di “valutazione del biologico” dalle medesime adottato caratterizzato dal tenere “in considerazione solamente la diminuzione della capacità funzionale della persona”, invero “calcolata in una componente fissa” commisurata “alla menomazione e all’età”, sicchè alla stregua del medesimo non possono “ritenersi automaticamente assorbite le conseguenze che la diminuzione funzionale produce nel soggetto, nelle sue svariate componenti della vita quotidiana (danno alla vita di relazione, sociale, di tranquillità futura, alla realizzazione familiare e lavorativa, ecc.) essendo il danneggiato costretto a vivere con un profilo chiaramente sottodimensionato che riduce fortemente le prerogative di vita del soggetto”.
Lamenta ulteriormente che “Tali ulteriori danni meritano autonoma valutazione, come componenti variabili del biologico e adeguatamente motivate, se si ritiene di assorbirli, con una liquidazione più pesante a punto che tenga in considerazione delle peculiarità del caso specifico, se non si ritiene di valutarli come conseguenze sulla vita relazionale, lato sensu intesi, in una voce a parte, fra i danni non patrimoniali, accanto al biologico (c.d. danno esistenziale)”.
Lamenta, ancora, essersi “posto all’attenzione del Giudice d’Appello… il grave disagio derivato al danneggiato costretto per quasi 5 anni a non muoversi dalla casa della madre… avendo avuto immediatamente compromessa la sua dimensione lavorativa… anche sotto il profilo relazionale, delle frequentazioni e della vita sociale connesso alle gravi menomazioni subite. La mancanza di una gamba (dolore urente da arto fantasma) l’irrimediabile compromissione di un arto superiore (plegico) con forte limitazione della funzionalità dell’altro non può essere considerata alla stregua di una cicatrice (c.d. danno estetico) compreso automaticamente nel biologico, per l’imponente impatto psicologico che produce (non solo il dolore, patema d’animo, in corrispondenza degli interventi e della luna degenza – danno morale -) ma per la ben più imponente sofferenza psicologica connessa a dover affrontare la residua vita senza una realizzazione sul piano lavorativo, affettivo e sentimentale e sessuale, abitativo, di spostamento, essendo costretto a dipendere anche per le più elementari esigenze della vita quotidiana dall’anziana madre, con la quale abita, non potendo di certo sperare (per le gravi menomazioni) di poter esplicare normalmente una vita di relazione e poter trovare una persona che intenda condividere con lui la vita futura e potersi assicurare la solidarietà connessa alla possibilità di formare una propria famiglia con moglie e figli”.
Lamenta, infine, che “Nella commisurazione della liquidazione si impone pertanto un’autonoma considerazione (c.d. danno esistenziale), come somma delle ripercussioni relazionali, a fianco e in aggiunta alle voci canoniche di danno patrimoniale, biologico, morale, o perlomeno di tenere in debita considerazione la gravità del caso di specie in una dimensione dinamica del danno biologico e del morale (come fattore amplificante), mediante un appesantimento del punto che cerchi di aderire alla gravità del caso specifico dopo aver fatto applicazione del rigido automatismo tabellare”.
Il motivo è fondato e va accolto nei termini di seguito indicati.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, in tema di liquidazione del danno non patrimoniale, nei diversi aspetti o voci di cui tale unitaria categoria si compendia, l’applicazione dei criteri di valutazione equitativa, rimessa alla prudente discrezionalità del giudice deve consentirne – sia in caso di adozione del criterio equitativo puro che di applicazione di criteri predeterminati e standardizzati (in tal caso previa la definizione di una regola ponderale commisurata al caso specifico: es., in base al valore medio del punto di invalidità calcolato sulla media dei precedenti giudiziari) -, la maggiore approssimazione possibile all’integrale risarcimento; a tal fine tali criteri devono essere pertanto idonei a garantire anche la c.d. personalizzazione del danno (v. Cass., 29/3/2007, n. 7740; Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
Al riguardo questa Corte ha sottolineato come le tabelle del Tribunale di Milano risultino essere quelle statisticamente maggiormente testate, e pertanto le più idonee ad essere assunte quale criterio generale di valutazione che, con l’apporto dei necessari ed opportuni correttivi ai fini della c.d. personalizzazione del ristoro, consenta di pervenire alla relativa determinazione in termini maggiormente congrui, sia sul piano dell’effettività del ristoro del pregiudizio che di quello della relativa perequazione – nel rispetto delle diversità proprie dei singoli casi concreti – sul territorio nazionale (cfr. Cass., 12/7/2006, n. 15760).
Si è recentemente posto altresì in rilievo che l’equità assolve invero (anche) alla fondamentale funzione di “garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale”, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie”, a tale stregua venendo ad assumere il significato di “adeguatezza” e di “proporzione” (così Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Essendo dunque l’equità il contrario dell’arbitrio, la liquidazione equitativa è insindacabile in sede di legittimità a condizione che risulti congruamente motivata, dovendo pertanto di essa “darsi una giustificazione razionale a posteriori” (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Preso atto che le tabelle di Milano sono andate nel tempo assumendo e palesando una “vocazione nazionale”, in quanto recanti i parametri maggiormente idonei a consentire di tradurre il concetto dell’equità valutativa, e ad evitare (o quantomeno ridurre) – al di là delle diversità delle condizioni economiche e sociali dei diversi contesti territoriali – ingiustificate disparità di trattamento che finiscano per profilarsi in termini di violazione dell’art. 3 Cost., comma 2, questa Corte è pervenuta a ritenerle valido criterio di riferimento ai fini della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c., laddove la fattispecie concreta non presenti circostanze che richiedano la relativa variazione in aumento o in diminuzione, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla circolazione (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408).
Tali parametri sono allora da prendersi necessariamente a riferimento ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella, di ammontare come nella specie inferiore, cui il giudice di merito sia diversamente pervenuto.
Incongrua è a tale stregua la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una liquidazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui si perviene mediante l’adozione dei parametri esibiti dalla c.d. tabelle di Milano (v. Cass., 7/6/2011, n. 12408; Cass., 12/7/2006, n. 15760).
A fortiori in considerazione della circostanza che, diversamente da quelle in uso presso altri tribunali, le “Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psico- fisica” del Tribunale di Milano sono state recentemente rielaborate all’esito delle pronunzie delle Sezioni Unite del 2008, prendendo in considerazione anche il profilo del danno non patrimoniale consistente nella perdita del rapporto parentale, e sono state aggiornate il 23/3/2011, in riferimento alle variazioni del costo della vita accertata dall’ISTAT nel periodo 1/1/2009 – 1/1/2011.
Risulta allora senz’altro incongrua ed erronea la motivazione dall’impugnata sentenza laddove essa si sostanzia in apodittiche affermazioni secondo cui “il Tribunale ha proceduto alla valutazione del danno biologico in via equitativa, facendo ricorso alle tabelle utilizzate nell’ambito del distretto (per il che non era tenuto a specifica motivazione…) e tenendo conto dell’età di L.R. …, della durata totale dell’invalidità temporanea …, dell’invalidità permanente.., e della perdita della capacità lavorativa specifica … il Tribunale ha riconosciuto per il danno biologico L. 527.850.000, somma emersa dall’applicazione dei suddetti criteri equitativi e non vi è ragione per discostarsi da tale valutazione giacchè l’utilizzo delle tabelle consente proprio di tenere conto, data la loro formulazione secondo scaglioni proporzionali all’età dell’infortunato ed alla gravità dei postumi, della peculiare rilevanza delle conseguenze del sinistro sulla salute della persona rimasta in esso coinvolta. Nè ha pregio la doglianza relativa al mancato riconoscimento del cosiddetto danno esistenziale, giacchè tale categoria di danno, comunque estranea a qualsiasi normativa giuridica, viene dalla Suprema Corte ormai ricompresa nel danno non patrimoniale, nel cui ambito è ravvisabile non solo la sofferenza patita, ma anche la privazione di attività non remunerative, fonti di compiacimento o benessere. Nel caso concreto, poi, anche la liquidazione del danno morale (L. 250 milioni), appare congrua, essendo stata rapportata, nella misura di circa il 50%, al danno biologico, così come prevede la maggioranza delle tabelle in vigore presso i Tribunali italiani”.
In ordine in particolare al danno biologico, la corte di merito ha infatti omesso di fare luogo ad una comparazione dei parametri indicati dalle tabelle di Brescia con quelli delle tabelle milanesi, e con i risultati che l’adozione di queste ultime avrebbe consentito di conseguire; nonchè di dare congruamente conto delle ragioni che l’hanno indotta a privilegiare l’attribuzione al danneggiato del diverso ed inferiore (di L. 250 milioni, secondo la doglianza del medesimo) ammontare della liquidazione cui è al riguardo nel caso pervenuta.
La corte di merito, va altresì osservato, fa nell’impugnata sentenza riferimento anche al “cosiddetto danno esistenziale”, dando atto che “tale categoria di danno, comunque estranea a qualsiasi normativa giuridica, viene dalla Suprema Corte ormai ricompresa nel danno non patrimoniale, nel cui ambito è ravvisabile non solo la sofferenza patita, ma anche la privazione di attività non remunerative, fonti di compiacimento o benessere”, e pervenendo quindi ad affermare di non averne tenuto conto nell’operata liquidazione.
Orbene, va anzitutto precisato che, diversamente da quanto affermato nell’impugnata sentenza, il “cosiddetto danno esistenziale” non consiste invero nella “privazione di attività non remunerative, fonti di compiacimento o benessere” bensì, come da questa Corte anche di recente ribadito, nel pregiudizio del fare aredittuale del soggetto determinante una modifica peggiorativa della personalità da cui consegue uno sconvolgimento dell’esistenza, e in particolare delle abitudini di vita, con alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della comune vita di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare (v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass., 12/6/2006, n. 13546; Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).
E’ lo sconvolgimento foriero di “scelte di vita diverse”, in altre parole, lo sconvolgimento dell’esistenza obiettivamente accertabile in, ragione dell’alterazione del modo di rapportarsi con gli altri nell’ambito della vita comune di relazione, sia all’interno che all’esterno del nucleo familiare, che, pur senza degenerare in patologie medicalmente accertabili (danno biologico), si rifletta in un’alterazione della sua personalità tale da comportare o indurlo a scelte di vita diverse ad assumere essenziale rilievo ai fini della configurabilità e ristorabilità di siffatto profilo del danno non patrimoniale (v. Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972; Cass., 12/6/2006, n. 13546; Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572).
Deve quindi adeguatamente sottolinearsi che, come le Sezioni Unite del 2008 hanno avuto modo di porre in adeguato rilievo, quando il fatto illecito come nella specie si configura (anche solo astrattamente: v. già Cass., Sez. Un., 6/12/1982, n. 6651) come reato, il danno non patrimoniale sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: v. Cass. n. 4186 del 1998; Cass., Sez. Un., n. 9556 del 2002) è risarcibile nella più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, giacchè in tal caso, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile (così Cass., 11/11/2008, n. 26972).
Al riguardo si è ulteriormente posto in rilievo come in caso di lesioni a causa di fatto illecito costituente reato spetta il risarcimento del danno non patrimoniale sofferto in conseguenza di tale evento, dovendo ai fini della liquidazione del relativo ristoro tenersi in considerazione la sofferenza o patema d’animo non solo quando la stessa rimanga allo stadio interiore o intimo, ma anche allorquando si obiettivizzi, degenerando in danno biologico o in pregiudizio prospettante profili di tipo esistenziale (v. Cass., 6/4/2011, n. 7844).
E’ invero compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore persona si siano verificate, e provvedendo alla loro integrale riparazione (in tali termini v. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972).
Il principio di integralità del risarcimento del danno impone infatti che nessuno degli aspetti di cui si compendia la categoria generale del danno non patrimoniale, la cui sussistenza risulti nel caso concreto accertata, rimanga priva di ristoro (v. Cass., 6/4/2011, n. 7844; Cass., 13/5/2011, n. 10527 e, da ultimo, Cass., 7/6/2011, n. 12273).
Tali aspetti debbono essere invero presi tutti in considerazione a fini della determinazione dell’ammontare complessivo del risarcimento conseguentemente dovuto dal danneggiante/debitore.
Al riguardo, si è precisato che in presenza di una liquidazione del danno morale che sia cioè stata espressamente estesa anche ai profili relazionali, nei suesposti termini propri del danno c.d. esistenziale, è senz’altro da escludersi la possibilità che, in aggiunta a quanto a titolo di danno morale già determinato, venga attribuito un ulteriore ammontare al (diverso) titolo di danno esistenziale (cfr. Cass., 15 aprile 2010, n. 9040).
Così come deve del pari dirsi nell’ipotesi, invero non ricorrente nella specie, di liquidazione del danno biologico effettuata avendosi riguardo anche a siffatta negativa incidenza sugli aspetti dinamico- relazionali del danneggiato.
Non può infatti sostenersi che allorquando ai fini della liquidazione di danno biologico vengono presi in considerazione anche i c.d. aspetti relazionali per ciò stesso tale aspetto o voce di danno possa considerarsi invero sempre e comunque assorbente il c.d. danno esistenziale (in tal senso v. invece Cass., 10/2/2010, n. 3906; Cass., 30/11/2009, n. 25236), essendo in realtà necessario verificare quali aspetti relazionali siano stati valutati dal giudice, e se sia stato in particolare assegnato rilievo anche al (radicale) cambiamento di vita, all’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto in cui dell’aspetto del danno non patrimoniale convenzionalmente indicato come danno esistenziale si coglie il significato pregnante (v. Cass., 2011, n. 7844).
Laddove tali aspetti relazionali (del tutto ovvero secondo i profili peculiarmente connotanti il c.d. danno esistenziale) non siano stati invece presi in considerazione, dal relativo ristoro non può invero prescindersi (cfr. Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972, e, da ultimo. Cass., 17/9/2010, n. 19816).
Il principio della integralità del ristoro subito dal danneggiato, va sottolineato, non si pone invero in termini antitetici ma trova per converso correlazione con il principio in base al quale il danneggiante e il debitore sono tenuti al ristoro solamente dei danni arrecati con il fatto illecito o l’inadempimento ad essi causalmente ascrivibile, l’esigenza della cui tutela impone, come da questa Corte del pari sottolineato, di evitarsi duplicazioni risarcitorie.
Al riguardo, va precisato, non si hanno invero duplicazioni risarcitorie in presenza della liquidazione dei diversi aspetti negativi ravvisati causalmente derivare dal fatto illecito o dall’inadempimento ed incidenti sulla persona del danneggiato/creditore.
Duplicazioni risarcitorie vengono invece a sussistere esclusivamente laddove lo stesso aspetto (o voce) venga computato due o più volte, sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni.
Orbene, emerge a tale stregua con tutta evidenza come la conclusione cui è sul punto pervenuta la corte di merito risulta in realtà illogicamente e contraddittoriamente motivata.
Le affermazioni in argomento della corte di merito, più sopra riportate, non offrono d’altro canto nemmeno indicazione alcuna in ordine alla circostanza se le Tabelle di Brescia, così come quelle di Milano, facciano riferimento anche ai profili relazionali propri del danno da perdita del rapporto parentale o del c.d. danno esistenziale. E, in caso positivo, se vi facciano riferimento prendendo – come invero le c.d. tabelle di Milano – tale perdita in considerazione esclusivamente di per sè, senza avere cioè riguardo (anche) al conseguente sconvolgimento dell’esistenza che per il genitore (o altro congiunto) conseguentemente ne derivi (v. Cass., 6/4/2011, n. 7844; Cass., 13/5/2011, n. 10527 e, da ultimo, Cass., 7/6/2011, n. 12273).
Nel qual caso, è invero necessario che il dato offerto dalle tabelle venga reso oggetto di relativa “personalizzazione”, riconsiderando i relativi parametri in ragione (pure) di siffatto profilo, al fine di debitamente garantire l’integralità del ristoro spettante al danneggiato (cfr., da ultimo, Cass., 9/5/2011, n. 10108).
Alla fondatezza del motivo nei suesposti termini consegue l’accoglimento in relazione del ricorso, con rinvio alla Corte d’Appello di Brescia che, in diversa composizione, procederà a nuovo esame, facendo applicazione dei seguenti principi:
“Le Tabelle per la liquidazione del danno non patrimoniale derivante da lesione all’integrità psicofisica del Tribunale di Milano costituiscono valido e necessario criterio di riferimento ai fini della valutazione equitativa ex art. 122 6 c.c., laddove la fattispecie concreta non presenti circostanze che richiedano la relativa variazione in aumento o in diminuzione, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla circolazione.
I relativi parametri sono conseguentemente da prendersi a riferimento da parte del giudice di merito ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale, ovvero quale criterio di riscontro e verifica di quella, di inferiore ammontare, cui sia diversamente pervenuto, incongrua essendo la motivazione che non dia conto delle ragioni della preferenza assegnata ad una liquidazione che, avuto riguardo alle circostanze del caso concreto, risulti sproporzionata rispetto a quella cui si perviene mediante l’adozione dei parametri esibiti dalle dette tabelle di Milano.
Vanno ristorati anche i c.d. aspetti relazionali propri del danno da perdita del rapporto parentale o del c.d. danno esistenziale, sicchè è necessario verificare se i parametri recati dalle tabelle tengano conto (anche) dell’alterazione/cambiamento della personalità del soggetto che si estrinsechi in uno sconvolgimento dell’esistenza, e cioè in (radicali) cambiamenti di vita, dovendo in caso contrario procedersi alla c.d. Spersonalizzazione, riconsiderando i parametri recati dalle tabelle in ragione (anche) di siffatto profilo, al fine di debitamente garantire l’integralità del ristoro spettante al danneggiato“.
Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie in parte il 6 motivo di ricorso, rigettati gli altri. Cassa in relazione l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’Appello di Brescia, in diversa composizione.
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