Nelle ultime ore, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è al centro di un turbinio di forze che, con tutta evidenza, ne vogliono la defenestrazione, in molti casi dopo averne richiesto, genuflessi, la rielezione meno di un anno fa, a conclusione di due mesi di ignobile stallo politico.
Ripercorriamo velocemente la fase concitata di un anno fa: dalle urne non esce una maggioranza chiara, alla Camera Pd e Sel hanno pieno controllo in virtù del premio di maggioranza, ma al Senato è caos completo, in piena tradizione Porcellum: ingovernabilità assicurata e larghe intese via obbligata: la domanda è una sola, chi deciderà di scendere a patti?
Così, dopo un paio di mesi, tra mandato esplorativo a Pier Luigi Bersani, finito nel vuoto dopo gli appelli al MoVimento 5 Stelle, la politica quotidiana dovette mettersi faticosamente da parte, per eleggere il successore di Giorgio Napolitano al Colle. Le votazioni, si ricorderà, seguirono un climax ascendente di tensione, parallelamente all’ennesimo psicodramma vissuto in casa Pd, con l’incenerimento di due candidature in due giorni, prima Franco Marini e, poi, il fondatore nonché ex premier Romano Prodi.
Da allora, con i famosi 101 traditori, il primo partito in Parlamento ha intrapreso un faticoso percorso di rinnovamento che, a oggi, dimostra tutta la sua precarietà con lo scontro tra il presidente del Consiglio e il neo segretario. All’indomani del ritiro della candidatura di Prodi, infatti, tutto lo schieramento politico si recò in ginocchio dal presidente uscente per chiedere la disponibilità a ricandidarsi: il giorno successivo, Napolitano divenne il primo Capo dello Stato rieletto con maggioranza schiacciante dal Parlamento in seduta comune.
Quindi, la prima mossa fu proprio la costituzione di un governo di larghe intese, sorretto dai due partiti guida delle coalizioni di centrodestra e centrosinistra, Pd e Pdl. Insomma, solo la rielezione di Napolitano poté assicurare lo sblocco di uno stallo che stava bloccando il paese nelle sabbie mobili, con gli effetti, però, che tutti conosciamo. Un governo più incline ai rinvii che alle decisioni, incapèace di porre freno alla crisi economica e sociale, che,a pochi mesi dal suo insediamento, ha visto uscire dalla maggioranza il secondo gruppo parlamentare, una volta formalizzata la decadenza di Berlusconi da senatore, lo scorso 27 novembre.
Ad assicurare la permanenza di Enrico Letta a palazzo Chigi, soltanto la spaccatura tra il fronte governativo del Pdl e quello invece intransigente, che ricostituì Forza Italia. Intanto, faceva il suo ingresso in scena un predestinato: l’8 dicembre, Matteo Renzi riceveva l’investitura di 3 milioni di votanti alle primarie per la segreteria del Partito democratico. Un mese di rodaggio e il 18 gennaio il colpo di scena: l’incontro Renzi-Berlusconi mette sul tavolo la proposta di legge elettorale, ora in Parlamento.
Nel frattempo, pungolato dallo stesso Renzi, il governo sembra incapace di reagire e si aggrappa alla difesa di Napolitano, sotto tiro dal MoVimento 5 Stelle, con la richiesta di impeachment, già decaduta, e le inattese rivelazioni sui movimenti dell’estate 2011, quando prese contatti con l’allora commissario europeo Mario Monti sondando una sua eventuale disponibilità a succedere all’allora premier Berlusconi.
Era dai tempi di Oscar Luigi Scalfaro che un presidente della Repubblica non entrava in maniera così diretta e personale nel dibattito politico. Di questo, buona responsbailità è dello stesso Napolitano, che ha visto precipitare il proprio gradimento del 50% in un paio di anni, ma additare l’intera colpa al capo dello Stato sarebbe un’assoluzione troppo generosa per la politica italiana, alla costante ricerca di un capro espiatorio.
Non si può negare che Napolitano sia l’artefice principale di questo status quo: la sua stessa rielezione fu la condizione base per il governo delle larghe intese, oggi moribondo. Suona strano, però, che, a differenza di meno di un anno, quegli stessi personaggi pronti a invocarlo, incensando il senso dello Stato di un presidente che aveva accettato di restare in gioco, ultraottuagenario, per il “bene della nazione”, siano gli stessi che oggi ispirano titoli a prima pagina dal tono “Non è il mio presidente”. Certo, re Giorgio non si sarebbe augurato un’uscita di scena di questo genere e, se avesse potuto immaginarlo, forse lo scorso mese di aprile avrebbe rispedito al mittente le richieste imploranti di una politica incapace di trovare un accordo anche sulla stessa figura cardine della Repubblica.
Il quadro è chiaro: rovesciare il governo significa, oggi più che mai, spingere il Capo dello Stato alle dimissioni e, ovviamente, viceversa. Uno stato di eccezione che, viste le sabbie mobili di queste settimane, prima si concluderà e meglio sarà per la vita istituzionale ma che, per la protervia e le sospette “convergenze” tra Berlusconi, Grillo e Renzi, potrebbe indurre Letta e Napolitano ad aggrapparsi uno all’altro, prolungando l’agonia e, di conseguenza, l’inazione.
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