Molti guardano all’ istituzione di una camera delle regioni da affiancare alla prima camera. E’ un’ipotesi ormai classica, in campo almeno dagli anni ’70, ma crediamo che i tempi siano ormai maturi per andare oltre tale proposta, costituzionalizzando la conferenza stato-regioni. Essenziale, in questo quadro, è evitare qualsiasi soluzione che possa anche solo lasciare intravedere ulteriori conflittualità e complessificazioni della vita parlamentare. Ma proprio sotto questo aspetto il passaggio ad un bicameralismo asimmetrico sembra generare insuperabili inconvenienti.
Pretendere che assemblee strutturalmente differenziate, frutto di diversi circuiti di integrazione politica, agiscano collettivamente appare una mera petizione di principio piuttosto che una concreta possibilità, tanto meno una chance di semplificazione: come l’esperienza recente dimostra, è bastata una differenziazione relativamente modesta dei sistemi elettorali per generare grandi difficoltà. Peraltro, una volta che si riconoscesse solo ad una camera il potere di concedere e revocare la fiducia e, dunque, la signoria sul procedimento legislativo, fatalmente l’altra verrebbe costruita e percepita, non tanto come una seconda camera, quanto come una “camera secondaria”. Questa percezione sarebbe ancor più forte se la seconda camera fosse strutturalmente composita, formata da eletti, da rappresentanti della regioni e finanche degli enti locali, come qualcuno ipotizza. In una situazione del genere affidare a deliberazioni collettive bicamerali l’adozione di un qualsiasi atto porterebbe a un blocco decisionale sostanzialmente invalicabile con la dissipazione delle stesse funzioni sottostanti. Ad esempio, se le leggi costituzionali fossero affidate alla deliberazione bicamerale, in fatto, si vanificherebbe la funzione di revisione costituzionale per la sua pratica impossibilità di esercizio. E discorso analogo potrebbe valere per altre delicatissime materie come quella elettorale e tutte le altre che si volessero sottoporre a leggi organiche o bicamerali. La seconda camera, sarebbe in realtà solo una camera dei veti incrociati.
Nell’ esperienza ormai trentennale del dibattito sulla riforma costituzionale il senato si è sempre opposto ad ogni ipotesi di sua riduzione a camera “secondaria” e soprattutto all’interruzione del diretto rapporto rappresentativo con l’elettorato, rifiutando in particolare qualsiasi eventualità di elezione di secondo grado. Infatti, se molti senatori possono sperare di essere rieletti seguendo il medesimo percorso che li ha già portati al successo, tale speranza diverrebbe evanescente se, ad esempio, essi dovessero rivolgersi ai consiglieri regionali per ottenere l’investitura. Ma come ognun sa la revisione deve essere approvata anche dal senato. Non possiamo dimenticare le problematiche della fattibilità e il cosiddetto paradosso delle riforme: è sempre molto difficile riformare se stessi.
In via generale, nell’ auspicabile prospettiva di un superamento del bicameralismo paritario, l’instaurazione di un bicameralismo asimmetrico sembra foriero di complicazioni procedimentali ben più significative di quelle attuali. Né paiono decisivi gli argomenti contrari secondo cui il mantenimento di una seconda camera sarebbe comunque proficuo in chiave di ripensamento e controllo o in funzione del rapporto del centro con la periferia, segnatamente con le regioni.
Innanzi tutto, le esigenze di riflessione e ripensamento possono essere agevolmente soddisfatte anche grazie ad altri istituti che fanno riferimento ad una sola camera e che vanno dalle maggioranze qualificate, alle successive deliberazioni sullo stesso oggetto, alle iniziative vincolate, alla riserva di assemblea e così via.
In relazione ai rapporti tra stato e regioni, la strada più proficua sembra essere la costituzionalizzazione del sistema delle conferenze stato-regioni-enti locali, infatti le caratterizzazioni funzionali delle regioni vanno spostandosi dalla legislazione all’amministrazione e alla programmazione. Questo processo si sta sviluppando in certa misura “spontaneamente”, ma anche seguendo le prescrizioni dell’ordinamento europeo. Comunque la razionalizzazione del riparto delle competenze legislative, riducendo o eliminando la sfera della potestà concorrente a favore di quella esclusiva statale e di quella residuale regionale, tende a render vana l’esigenza di sedi di coproduzione legislativa. In ogni caso, su medesime materie è difficile trovare spazio per tre legislatori: Unione europea, Stato e Regioni.
Fino agli anni ’90, il territorialismo si è giovato del tessuto connettivo fornito dal sistema dei partiti che riusciva a collegare in una rete sistemica amministrazioni locali, regioni e stato: a quell’epoca neanche il bicameralismo perfetto rappresentava un problema particolarmente acuto. Oggi la crisi strutturale dei partiti rende più difficile qualsiasi cooperazione istituzionale, ma soprattutto le cooperazioni politiche che passano per le assemblee elettive e legislative in particolare. La legislazione regionale è divenuta evanescente, mentre la qualità di quella statale è nettamente peggiorata. Di quest’ultima frammentazione, temporaneità, alluvionalità, contraddittorietà sono diventate, purtroppo caratteristiche permanenti. A ciò non poco hanno contribuito alcuni equivoci federalisti, basti pensare a quanto accaduto in tema fiscale o ambientale. Non possiamo ragionare come se questi problemi non esistano e come se il nostro sistema politico-partitico esprima già oggi, o esprimerà a breve, una capacità di cooperazione in grado di superarli. L’ ordinamento deve poter funzionare anche nell’ipotesi che la frammentazione partitica resti un elemento caratterizzante delle nostre istituzioni politiche.
Per questa molteplicità di ragioni, decisamente più utili e promettenti appaiono le cooperazioni intergovernative tra le regioni e tra l’esecutivo statale e quelli regionali. Il ruolo degli esecutivi caratterizza la nostra epoca. Anche solo per questo generalissimo motivo il sistema delle conferenze meriterebbe di essere costituzionalizzato. E’ seguendo questa strada che le regioni possono ritrovare il proprio futuro e il parlamento evitare la paralisi dei bizantinismi legati alla seconda camera.
In definitiva, appare sconsigliabile ipotizzare una camera dagli improbabili sistemi di formazione e dagli incerti confini competenziali, ma dai sicuri poteri di veto. Si tratta, invece, di semplificare in modo certo ed altamente incisivo i processi decisionali, nonché di ridurre il numero dei parlamentari su una base di pari dignità accettabile sia dai deputati che dai senatori. In altre parole bisogna ridurre il numero complessivo dei seggi e prevedere un solo circuito di integrazione e selezione politico-rappresentativa: da due camere farne una sola. L’unificazione delle due Camere oggi esistenti in un’ unica assemblea denominata Parlamento della Repubblica, presenta indubbi vantaggi funzionali, mentre sul piano della fattibilità potrebbe acquisire il consenso dei senatori che non si vedrebbero ghettizzati in una camera secondaria, ma partecipi a pieno titolo dell’unica assemblea rappresentativa, sia pure composta da un numero di parlamentari inferiore a quello che oggi deriva dalla sommatoria di camera e senato. Non più deputati e senatori, solo Parlamentari della Repubblica. Tutti eletti allo stesso modo, tutti eletti a suffragio universale diretto, tutti con le stesse prerogative e la stessa dignità rappresentativa. Infine, ma certo non ultimo in importanza, l’ipotesi monocamerale per la sua intuitiva semplicità potrebbe essere sostenuta con convinzione dall’opinione pubblica, soddisfacendo sia dal punto di vista funzionale che da quello politico lo scopo di rilegittimare le nostre istituzioni rappresentative.
Pietro Ciarlo – Giovanni Pitruzzella
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