Con la sentenza 7985 del 2 Aprile 2013 la Cassazione ha infatti “ribadito” alcuni elementi di particolare interesse. Nello specifico il giudice del lavoro può accertare la presenza di un fenomeno mobbizzante tenendo conto delle prove fornite in relazione ad una serie di atti vessatori, teologicamente collegati tra loro allo scopo di produrre l’emarginazione del soggetto passivo. Nello specifico la sentenza riguarda un dipendente che riteneva di aver subito dei danni a causa di un demansionamento e del mobbing attuato nei suoi confronti. Secondo la Cassazione il “mero svuotamento delle mansioni” non è sufficiente a prospettare un atteggiamento vessatorio “occorrendo al fine della deduzione del mobbing anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente”. Accanto a questa considerazione, spicca un ulteriore elemento che è quello delle prove che devono essere inerenti fatti specifici e rilevanti e non “valutazioni” nello specifico delle mansioni “circa il contenuto formale degli incarichi conferiti”.
Che il demansionamento possa essere dovuto a molteplici fattori, che spaziano dall’esigenze organizzative alla non competenza del dipendente, risulta palese, che lo svuotamento di mansioni possa essere in alcune circostanze dovuto in parte ad un atteggiamento del dipendente, anche. Questi elementi, anche nel caso facessero parte di dinamiche mobbizzanti, non necessariamente si prestano ad una ricostruzione probatoria precisa e puntuale anche perché il dipendente realmente mobbizzato rischia di vivere un periodo lavorativo nel quale non riesce a leggere chiaramente le dinamiche in corso.
A tal proposito risulta interessante l’ordinanza 18 maggio 2012, n.7963 della Cassazione nella quale si sostiene che al lavoratore deve essere riconosciuto “il diritto a svolgere le mansioni per le quali è stato assunto ovvero equivalenti alle ultime effettivamente svolte” e che ha “il diritto a non essere lasciato in condizioni di forzata inattività e senza assegnazione di compiti, ancorché senza conseguenze sulla retribuzione”. L’ordinanza della Cassazione continua sostenendo che “la violazione di tale diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro responsabilità che, peraltro, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicché, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa – oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all’esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari – anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato”.
Senza addentrarci nello specifico della sentenza del giudice di merito, che comunque dovrebbe essere analizzata per comprendere appieno la portata della Sentenza della Suprema Corte, ritorna prepotentemente in auge la difficoltà che può essere riscontrata in merito alla prova e all’accertamento dell’intento persecutorio, uno dei punti in assoluto più delicati del fenomeno del mobbing.
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