Da più parti è stato sottolineato il problema della formazione e quindi della capacità e professionalità dei mediatori.
Ebbene, sicuramente il problema è centrale, ma nemmeno facilmente risolvibile.
Il fatto è che mai come in questo momento la nostra categoria, non solo di avvocati ma di giuristi in generale, ha perso una caratteristica che aveva sempre avuto e che era fondamentale per la composizione bonaria delle lite, che è l’autorevolezza.
Chi va in mediazione, e vuole raggiungere un accordo, deve essere consapevole che, in misura più o meno maggiore, ci resterà fregato. Questo è il dato di base di partenza.
Qual’è quella persona che si rassegna di fronte ad un mediatore che a malapena dimostra di capire quello di cui si sta parlando?
Il mediatore ideale, lo sappiamo tutti, è un giurista stimato, che illumina con le sue interpretazioni e le sue «letture» le disposizioni che devono essere applicate nel caso concreto, ma è anche una persona di spiccata umanità, di grande empatia e di profonda capacità di comprendere l’animo delle persone, un po’ come lo sono stati solo i grandi scrittori.
Oggigiorno, giuristi veramente preparati sono rari, è un dato di fatto. Per contro, la gente comune ha perso progressivamente man mano sempre più fiducia nella «legge» come criterio di risoluzione delle vertenze, anteponendo altri elementi di genere etico, morale, personale, familiare, sentimentale quali criteri discretivi per il suum cuique tribuere.
Che poi è il senso della mediazione: usare anche altro rispetto al diritto per definire le controversie.
Ma i mediatori, che raramente padroneggiano il punto di partenza, cioè il diritto, possono arrivare a gestire efficacemente tutto il resto?
Soprattutto, mi chiedo: una attitudine di questo genere è «insegnabile»? Cioè una persona eccezionale come quella che abbiamo tratteggiato sopra, ammesso che sia disponibile, sarebbe in grado di trasmettere queste sue capacità professionali, mutatis mutandis, ad eventuali allievi? Io credo che, se anche fosse, potrebbe farlo solo con una frequentazione pluriennale sul campo, cioè con allievi che frequentassero la sua «bottega», partecipando all’esame e alla discussione dei singoli casi.
Per fare un buon mediatore, insomma, ci vuole un uomo saggio. Che poi è quella persona di fronte alle indicazioni della quale la gente comune anziché chiudersi e arroccarsi si apre e accetta di fare qualche rinuncia, ma solo perché lo ha chiesto «lui» e ha dato loro una buona motivazione, che ha saputo attingere le leve giuste, spesso più psicologiche che giuridiche. Sono figure che ci sono sempre state in ogni agglomerato umano e che oggigiorno ci sono ancora in molte parti del mondo, e in molte famiglie italiane, sono le persone cui per un motivo o per l’altro è riconosciuta sia autorità che soprattutto autorevolezza, nel senso che generalmente le loro indicazioni sono considerate quantomeno con rispetto, non perché è un dovere farlo ma perché viene spontaneo.
Ora, basta un corso di 50 ore per rendere saggio un uomo?
Intanto non tutti possono diventare saggi.
E quei pochi che possono non lo divengono comunque in 50 ore.
Triste è l’allievo che non supera il maestro, diceva Leonardo. Ma l’allievo, prima di arrivare quantomeno al livello del maestro, ne deve frequentare lo studio almeno per qualche anno, con un insegnamento e una partecipazione pressoché individuali.
La mediazione, probabilmente, non è, o non è solo, una tecnica, ma richiede caratteristiche che il nostro corpo di giuristi è andato sempre più perdendo: il prestigio, l’autorevolezza, la finezza interpretativa, la preparazione e l’umanità, intesa come empatia.
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