Ne sa qualcosa il premier Matteo Renzi, che sulla narrazione di sé ha costruito il suo fulmineo percorso politico, in grado di catapultarlo, nell’arco di pochi mesi, dal Comune di Firenze a palazzo Chigi senza neanche passare per le elezioni.
Insomma, oggi, verrebbe da dire, la narrazione appare addirittura più importante del voto: costruire un’immagine forte e coerente di un leader può aiutarlo in maniera determinante a imporsi e a mantenere il potere. Renzi, in questo, è un vero maestro e più volte abbiamo rimarcato la sua abilità nel sapersi porre in contrasto con la vecchia classe politica, a partire dal mantra della rottamazione fino alla vittoria nelle primarie per la segreteria, il suo vero trampolino verso il governo e la defenestrazione di Enrico Letta.
Ma arriva un momento in cui un personaggio politico che si assume responsabilità di fronte al Paese e verso gli elettori che hanno espresso quantomeno la composizione del Parlamento (non i singoli eletti, come ha ricordato la Consulta) viene chiamato a rendere conto di quello che ha realizzato.
A oltre un anno di vita del governo Renzi, però, sembra che il giovane leader non si sia ancora distaccato dalla sua immagine pre governativa, e, anzi, anche alla prova dei fatti a prevalere, nelle sue azioni, non è tanto il “fare quello che serve”, ma una generale ansia di arrivare al risultato per “raccontare di aver fatto”.
La differenza, come si può notare, non è così sottile, ma in termini di economia politica assume connotati ben più sfuggenti. Grazie alla propria capacità comunicativa, e a un sistema di media non troppo ostili, almeno nei grandi gruppi, un leader come Renzi può costruire il racconto della propria azione di governo anche in termini che non collimano troppo con la realtà. L’impressione è che, con l’appuntamento delle elezioni regionali alle porte, il premier voglia arrivare alle urne con la lista della spesa completata, senza però poter chiarire i benefici per il Paese portati dalle sue riforme.
Sotto questa frenesia del “fare per raccontare” si spiega anche la scellerata decisione di apporre la fiducia alla legge elettorale, un inedito assoluto negli ultimi sessant’anni che, non a caso, ha stizzito e non poco anche la base del suo elettorato, specie quella di estrazione più di sinistra.
Deve stare atteno, il premier, o con questa ossessione di volersi smarcare dall’inettitudine dei predecessori, utilizzando qualsiasi mezzo a disposizione, rischia di perdere lo zoccolo duro dei suoi elettori: perché sarà pur vero che uno bravo come lui, nel centrosinistra, a calamitare i voti dell’altra parte non si è mai visto, ma farebbe meglio a non dimenticare che per buona parte del suo popolo le procedure e il rispetto istituzionale contano ancora qualcosa.
Allo stesso modo, le ricette varate nei mesi scorsi tardano a dimostrare il vero e proprio cambio di rotta. Ne è un esempio il Jobs Act: nata come una riforma all’avanguardia, poi impaludata nelle discussioni con minoranze e sindacati, è diventata una fonte di nuovi privilegi – e dunque di disuguaglianza – quando si è deciso, da una parte, di vararlo solo per i neo assunti e, dall’altra, di limitarne l’applicazione al settore privato. E i dati freschi di oggi, con le assunzioni in calo nel primo mese di sperimentazione, sono lì a dimostrarlo.
Ancora, poi, cosa dire della riforma della Province? Dallo scorso 31 marzo, sarebbe dovuto diventare tutto chiaro e invece a regnare è la confusione: a un anno dall’approvazione, ancora i vantaggi per i conti pubblici e la semplificazione amministrativa restano un miraggio, per non parlare del caos dipendenti.
Ultimo, ma primo in ordine di importanza: le riforme costituzionali. Non c’è dubbio che il Senato come dopo lavoro di sindaci e consiglieri regionali resti un pasticcio ma, pur di arrivare al traguardo e dire di aver “abolito” una delle due Camere, il premier, che nel frattempo ha perso per strada l’appoggio di Forza Italia, ha intenzione di rischiare tutto nella roulette russa del referendum confermativo.
Insomma: il messaggio che deve passare, a ogni costo, è quello che, a differenza del passato, ora “le cose si fanno”. Con quali effetti, poi, sulla vita sociale e istituzionale, resta tutto da vedere: ma, quando lo scopriremo, le elezioni saranno alle spalle da un pezzo.
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