Il rischio ambientale
Il diritto alla salute ingloba anche dalla nozione di “rischio ambientale”, dove per “ambientale” si intende lo spazio entro il quale si esercita l’attività lavorativa non più limitato, unicamente, al macchinario a cui il lavoratore è adibito. In proposito, la Corte di Cassazione a Sez. Unite, con la pronuncia n. 3476/1994 ha esteso la tutela assicurativa “al lavoro in sé e per sé considerato e non soltanto a quello reso presso le macchine”, poiché la pericolosità per la salute del lavoratore non origina più esclusivamente dal macchinario ma da tutto l’ambiente di lavoro, fino ad arrivare alla moderna nozione di mobbing.
Nel caso di specie che qui rileva, la Cassazione ha ritenuto le condizioni ambientali e organizzative della redazione in cui lavora la ricorrente del tutto inadeguate per la realizzazione di un buon profitto aziendale, riconoscendo la patologia dell’istante (disturbo dell’adattamento e stato depressivo con attacchi di panico), come suscettibile di indennizzo, anche se non tabellata dal TU 1124 del 1965.
Inoltre, per la Suprema Corte ciò che rileva e che considera presente è proprio il nesso di causalità tra la patologia certificata dalla ricorrente e le condizioni lavorative-organizzative-ambientali in cui è stata costretta a svolgere la sua professione.
Il nesso causale viene ricostruito ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p., secondo il criterio della conditio sine qua non, della causalità necessaria. Occorrerà, perciò, la verifica della probabilità logica (Sez. Un. Penali 30328/2002) che, rispetto a quella epidemiologica o statistica, richiede la verifica aggiuntiva dell’attendibilità dell’impiego della legge scientifica al singolo evento, in base al c.d. giudizio contro fattuale.
Pertanto, a seguito di ciò, la Corte di Legittimità cassa la sentenza di merito e rinvia alla Corte d’Appello di Brescia in diversa composizione.
La malattia professionale riconosciuta anche se non inclusa nella tabella
Circa poi, la mancata inclusione della malattia lamentata dall’istante nella tabella, la Cassazione ricorda la nota pronuncia della Corte Costituzionale n. 179/1988 che ha fatto scuola in materia e che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 TU 1124 del 1965: “Per questi motivi La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 38, comma secondo, Cost., dell’art. 3, comma primo, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (testo unico delle leggi sull’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali), nella parte in cui non prevede che l’assicurazione contro le malattie professionali nell’industria é obbligatoria anche per malattie diverse da quelle comprese nelle tabelle allegate concernenti le dette malattie e da quelle causate da una lavorazione specificata o da un agente patogeno indicato nelle tabelle stesse, purchè si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro”.
I motivi che hanno condotto a tale orientamento, risiedono nell’aver intuito che in ogni caso non può ignorarsi, in quanto parte della comune esperienza, l’evoluzione progressiva delle tecnologie diagnostiche, anche e particolarmente nel settore della medicina del lavoro, evoluzione che implica l’ampliamento delle ipotesi di massima probabilità di eziologia professionale di date malattie, definibili come tipiche.
Nè può ignorarsi l’intervenuto sviluppo, anche fortemente innovativo, delle tecnologie produttive, sviluppo che implica l’incremento dei fattori di rischio delle malattie professionali.
Con tale pronuncia della Corte, si è passati quindi da un “sistema chiuso” ad un “sistema misto”, che consente l’ammissione alla tutela assicurativa di ogni malattia di cui venga dimostrata dal lavoratore l’origine lavorativa; per le malattie non tabellate, l’onere della prova sarà a carico del lavoratore, mentre per le malattie tabellate la tutela è automatica.
Nel corso degli anni il numero delle malattie riconosciute per legge e delle attività lavorative protette e delle persone tutelate è stato progressivamente ampliato. Attualmente, l’obbligo di denuncia da parte dei medici è quindi molto più ampio, comprendendo anche malattie la cui origine lavorativa è di limitata probabilità o mera possibilità, e questo proprio allo scopo di far emergere l’origine professionale di patologie non tabellate, nell’ottica di una sempre maggiore tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.
La denuncia, la registrazione e quindi il monitoraggio delle malattie di probabile o possibile origine lavorativa dovrebbe consentire infatti di individuare sempre meglio i fattori di rischio e di esposizione e la correlazione tra le malattie rilevate e le attività lavorative.
Alla luce di tanto, ha acquistato interesse l’allargamento dell’area della eziologia, sicchè la presunzione nascente dalle tabelle é divenuta insufficiente per il raggiungimento di un esito appropriato delle indagini inerenti le cause di lavoro. E ciò non solo per quel che concerne l’individuazione di nuove malattie, ma anche per quel che concerne gli ostacoli che all’accertamento dell’eziologia professionale delle malattie può opporre la distanza temporale fra la causa patologica e la manifestazione morbosa.
L’attenzione, poi, concessa alla sfera psichica dell’uomo da parte della comunità scientifica ha aggiunto dei tasselli all’istituto della malattia professionale che fino a mezzo secolo fa erano impensabili.
La presenza di stress emotivo indotto, di pressione emotiva, nonché l’imposizione, a volte, di orari lavorativi disumani influiscono sulla genesi di alcune patologie, anche, mortali. Va infine osservato che il diritto alla salute comporta anche il diritto alla salubrità dell’ambiente, dove per salubrità si intende non solo quella che impone di eliminare le cause dell’inquinamento ambientale in senso stretto, ma anche quella che auspica una condizione antropica favorevole e collaborativa al fine di incrementare il profitto aziendale.
Al termine di questo approfondimento, dopo aver chiaramente evidenziato che sono considerate malattie professionali anche quelle non comprese nelle tabelle di cui agli artt. 3 e 211 del testo unico delle quali il lavoratore dimostri l’origine professionale, e allo scopo di far emergere l’origine professionale di malattie non comprese nelle tabelle in questione, l’art. 10, comma 4, del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, ha disposto che l’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia di cui all’art. 139 del testo unico debba contenere anche liste di malattie di probabile e di possibile origine lavorativa, da tenere sotto osservazione ai fini della revisione delle tabelle delle malattie professionali.
Il registro nazionale delle malattie professionali
A questo scopo, l’art. 10, comma 5, del D.Lgs. 23 febbraio 2000 n. 38 ha istituito, presso la banca dati INAIL, il registro nazionale delle malattie causate dal lavoro ovvero ad esso correlate, al quale possono accedere le strutture del servizio sanitario nazionale, le direzioni provinciali del lavoro e gli altri soggetti pubblici cui, per legge o regolamento, sono attribuiti compiti in materia di protezione della salute e di sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro.
Il registro nazionale delle malattie professionali, così previsto è nato solo nel marzo del 2006 e divenuto operativo nel luglio del 2007 dopo una fase iniziale di sperimentazione.
Tale registro ha lo scopo di raccogliere le informazioni sulle caratteristiche e dimensioni del fenomeno delle malattie professionali ed i dati raccolti sono a disposizione di tutti i soggetti pubblici ai quali sono attribuiti compiti di protezione della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, in modo da consentire studi più approfonditi sulle patologie certe, di probabile e possibile origine lavorativa.
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