L’ombra lunga dell’uragano Sandy sulle elezioni americane

Redazione 02/11/12
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Almeno 59 morti, di cui 22 nella sola New York, che si aggiungono ai 69 causati precedentemente nei Caraibi. 8 milioni e 200.000 persone rimaste senza elettricità in 17 Stati Usa (di cui 2 milioni nella Grande Mela). Caos nei trasporti, ospedali evacuati, dighe crollate. Ordine di evacuazione diramato per oltre 1 milione di persone, 375.000 nella sola New York. Atlantic City (sede del più celebre casinò d’America) travolta da raffiche di vento a 130 kilometri orari e sommersa da onde alte 4 metri anche a causa del cedimento della diga locale. Danni materiali stimati approssimativamente in 20 miliardi di dollari, ma che potrebbero salire (e che, verosimilmente, saliranno, a 50 miliardi). Massima allerta per tre (secondo alcune fonti, cinque) centrali nucleari negli Stati di New York e del New Jersey, in cui sono stati spenti complessivamente tre reattori (“sorvegliato speciale” l’impianto di Oyster Creek, il più vecchio degli Stati Uniti d’America, dove era scattato il livello di allerta 2 su una scala di 4 gradi). Chiusa per due giorni persino l’inossidabile Wall Street (è la prima chiusura dovuta a maltempo dal 1888).

Questo il bilancio (provvisorio) dopo il passaggio devastante dell’uragano Sandy, giunto sui cieli del Canada e derubricato prima a tempesta tropicale, ora a semplice depressione. Il cosiddetto “Day After” comincia con un risveglio in quello che sembra un mondo quasi paralizzato, sotto un cielo grigio e pesante. Sandy rappresenta il secondo uragano che l’amministrazione Obama deve gestire nell’arco di pochi mesi, dopo il passaggio del ciclone Isaac alla fine di agosto su Florida e Louisiana. Oggi come allora, il Presidente americano ha dichiarato lo “stato di calamità” per New York, New Jersey e Long Island. Tale provvedimento renderà immediatamente disponibili fondi federali per chi è stato colpito a vario titolo dal disastro, compresi prestiti per trovare alloggi alternativi e per far riparare le abitazioni.

È forse ancora presto per dirlo con esattezza, dato che la conta dei danni e dei dispersi è lungi dall’essere conclusa, ma quanto lasciatosi alle spalle da Sandy sembra essere il più terribile disastro ambientale che abbia colpito gli Stati Uniti dopo il devastante uragano Katrinache, nell’agosto del 2005, complice anche la colpevole sottovalutazione del fenomeno da parte dell’amministrazione Bush – mai perdonata dagli Americani all’ex Presidente – distrusse la città di New Orleans in Lousiana, facendo circa 1.500 morti (cifra ufficiale che non contempla le centinaia di dispersi mai più ritrovati).

Katrina dimostrò a suo tempo che disastri ambientali possono ancora causare migliaia di morti non solo in nazioni del Terzo Mondo (a questo siamo, purtroppo, tristemente abituati) ma anche in Paesi evoluti e, nella fattispecie, nella prima potenza mondiale.

Se c’è un errore di cui non si può accusare il Presidente Barack Obama è proprio quello di aver sottovalutato la furia devastatrice dell’uragano Sandy, che potenzialmente avrebbe potuto rivelarsi molto più distruttivo, specialmente in termini di perdite di vite umane, di quanto non sia stato in effetti, a passaggio ormai avvenuto. La lezione di Katrina è stata imparata, ed un’intensa campagna di prevenzione ed allerta, attuata in maniera sistematica con un buon preavviso nei giorni precedenti l’arrivo di Sandy, ha fatto sì che gli Americani, questa volta, fossero preparati e pronti (nei limiti dell’umano) a fronteggiare l’imponente fenomeno della natura.

Da alcune parti si erano levate voci che ipotizzavano persino un rinvio dell’Election Day, che tuttavia rimane saldamente ancorato alla data di martedì 6 novembre 2012. Ad essere saltata è solo la tradizionale celebrazione di Halloween, in una New York mai così spettrale come in questa fine di ottobre 2012.

Sandy, in effetti, potrebbe rivelarsi determinante per influenzare l’esito delle prossime elezioni americane. Dopo mesi di campagna elettorale infuocata e tre dibattiti televisivi finiti con un 2 a 1 a vantaggio del Presidente in carica, il candidato democratico Barack Obama e il repubblicano Mitt Romney appaiono ancora testa a testa nei sondaggi a livello nazionale, anche se determinante – come sempre nelle elezioni USA – sarà la ripartizione dei voti a livello dei singoli Stati della Federazione, per mezzo dei cosiddetti “Grandi Elettori” (ne servono almeno 270 su 538 per diventare, o confermarsi, inquilini alla Casa Bianca).

Per il momento, la gestione dell’uragano sembra aver dato una mano al Presidente in carica. Secondo quanto emerso dall’ultimo sondaggio del Washington Post/Abc, il 78% degli Americani elogia il modo in cui l’amministrazione Obama ha fronteggiatol’emergenza Sandy (a fronte di un solo 8% che se ne dichiara insoddisfatto). Obama riscuote l’aperto consenso anche da parte di Chris Christie, Governatore repubblicano dello Stato del New Jersey, per la buona organizzazione messa in campo e la vicinanza del Presidente alle popolazioni duramente colpite dal disastro.

Lontani i tempi del “Yes we can”, Obama sembra aver (almeno parzialmente) dismesso i panni del sognatore e dell’idealista per vestire quelli più pragmatici del buon amministratore della cosa pubblica, panni ai quali sembra calzare a pennello il nuovo slogan “Forward”. “Avanti” con la riforma sanitaria (l’“Obamacare”), rivoluzionaria ma ancora parziale. “Avanti” con la politica estera all’insegna della mediazione (nel processo di pace tra Israeliani e Palestinesi, nei rapporti di forza globali con Cina e Russia, nel dossier sul nucleare iraniano, nelle “Primavere Arabe”, nonostante il perdurante inciampo in Siria). “Avanti” (dopo il “pannicello caldo” della Legge Dodd-Frank) con la riforma di Wall Street ed una vera, stringente regolamentazione della finanza dei derivati e dei subprime (non è un caso che le grandi banche d’affari americane siano, questa volta, massicciamente schierate a favore di Mitt Romney, mentre alle elezioni del 2008 si erano divise tra Obama e l’allora sfidante repubblicano McCain). “Avanti” con le politiche per l’alleggerimento del carico fiscale gravante sulla classe operaia e, in generale, sulla “middle class” e il suo spostamento sul 5% (approssimativo) di Americani più ricchi.

Il cavallo di battaglia dello sfidante repubblicano Mitt Romney è, invece, fondamentalmente uno, quello a suo tempo sintetizzato efficacemente dal democratico Bill Clinton nella campagna presidenziale del 1992: “It’s the economy, stupid”. È questo il problema più importante da risolvere per circa i tre quarti degli elettori e, al tempo stesso, il vero “tallone d’Achille” di Obama. Su questo terreno Romney ed il suo vice, il combattivo ed emergente Paul Ryan, incalzano il Presidente e vengono generalmente ritenuti più competenti. La grande promessa della destra è quella dei 12 milioni di nuovi posti di lavoro che saranno creati nei prossimi quattro anni. Ed, inoltre, taglio del deficit e riduzione del debito pubblico eliminando la contestata riforma sanitaria e tutta una serie di sussidi per l’assistenza, lasciando invariata la tassazione (già bassa) sui più ricchi. Una disoccupazione attorno all’8%, anche se a noi in Europa appare, ora come ora, quasi un sogno, è una percentuale molto elevata per l’economia degli Stati Uniti, fondata sulla tenuta dei per un buon 70%. La parola d’ordine del duo Romney-Ryan è sempre la stessa, “Meno stato, più Mercato”: anche se non proprio all’ultima moda, ha ancora un grande fascino presso milioni di Americani.

Gli ultimi dati economici sembrano, tuttavia, dar ragione alla ricetta messa in campo da Obama dopo l’eredità disastrosa della crisi dei mutui subprime del 2007-2008 (esplosa con il crac della Lehmann Brothers): la difesa dell’industria americana ha funzionato, la disoccupazione è in leggera ma costante diminuzione (ora al 7,9%), a fronte di un Pil che, pur lontano dall’impennarsi, è comunque stabilmente superiore alla soglia del +2%.

Il 1° novembre riparte anche la campagna elettorale di Obama, in un testa a testa sempre più serrato con lo sfidante repubblicano. Il Presidente torna ai comizi e, in questo modo, a fronteggiarsi a distanza con Romney dopo aver vestito per 3 giorni i panni del “comandante in capo” e affrontato direttamente l’emergenza dell’uragano Sandy. Per ora si sa solamente che questa scelta “super partes” è stata apprezzata dalla grande maggioranza degli Americani (repubblicani ed indipendenti compresi). Se, nell’attuale situazione di sostanziale parità, sarà anche determinante per garantire all’inquilino della Casa Bianca la rielezione, solo il verdetto delle urne – atteso per la serata del 6 novembre prossimo – potrà dirlo.

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