Del resto, proprio come la squadra blaugrana, il segretario dem è reduce da una sonora “bastonata”, non già perdendo 4-0, ma 60-40, in termini di percentuali, quelle del referendum costituzionale, sulla riforma da lui così fortemente voluta. Una debacle che lo ha portato a rassegnare le dimissioni, passando il testimone al mite Paolo Gentiloni.
Oggi, dopo tre mesi, ecco che l’ex rottamatore rilancia la sua candidatura in una cornice a dir poco nota per i militanti, il Lingotto di Torino, proprio lì dove, ormai dieci anni fa, il primo segretario e candidato premier Pd Walter Veltroni enunciò il manifesto della più grande forza politica di centrosinistra.
Oggi, le premesse sono ben diverse, il Pd è smembrato, dopo la dipartita di D’Alema, Bersani e compagnia, ma l’auspicio dei renziani è che sia differente anche l’esito. Già, perché come tutti ricordano il proclama veltroniano non radunò abbastanza consensi da spedire il suo eletto a palazzo Chigi, dovendo inchinarsi per l’ultima volta a Silvio Berlusconi, che rimase in sella fino al 2011.
Eccolo, dunque, Renzi, dopo le battaglie nella direzione interna al partito, dopo il divorzio più annunciato ed enigmatico, su cui nessuno ha saputo spiegare i punti chiari delle divergenze, o forse per questo talmente banale da sembrare perfino ovvio: ostilità personale nei confronti dell’ex presidente del Consiglio da parte della fu minoranza, totalmente ricambiata dallo stesso Matteo Renzi.
Ora, però, che l’alibi della fronda interna è svanito, sarà in grado di ricompattare il partito attorno alla sua figura, che sconta un triennio al governo con luci e ombre, mentre gli indicatori su economia e occupazione latitano e Bruxelles rimane alla finestra fregandosi le mani? Il 30 aprile, è noto, sono già fissate le primarie del Pd e Renzi parte in pole position, anche se le maggioranze bulgare di fine 20133 sembrano un ricordo.
L’opposizione appare un’arma spuntata, oggi nelle mani dei contendenti Michele Emiliano e Andrea Orlando, l’uno piuttosto bellicoso, l’altro ministro della Giustizia in carica e dunque in posizione da far gettare qualche dubbio sulla reale convinzione in campagna elettorale.
Vero è che la figura di Renzi non appare più intaccabile come all’inizio del suo cammino istituzionale, quando il tweet “Enrico stai sereno” scivolò via senza troppi imbarazzi, nel momento in cui l’uscente Letta gli passò la campanella del Consiglio dei ministri, visibilmente rabbuiato in volto.
Ancora oggi, è lui a rappresentare il maggiore serbatoio di voti nelle file del Pd, e l’ipotesi più realistica di candidatura alle prossime elezioni politiche, malgrado gli scandali che sfiorano come non mai i suoi fedelissimi e famigliari. Le primarie, salvo scossoni, appaiono tranquillamente alla sua portata, tanto è vero che può permettersi di tenere – come oggi – discorsi da statista, anziché focalizzarsi sugli avversari ben distanti. Che tutto ciò, tra un anno o prima, possa tradursi in una identica vittoria alle urne nazionali, questo è completamente da dimostrare. In primo luogo, perché secondo i sondaggi oggi il Pd allo stato attuale non è la prima forza del Paese, il che vorrebbe dire premio di maggioranza ai 5 Stelle. In secondo luogo, poi, Renzi sa di doversi guardare più a sinistra che altrove, poiché un sorpasso di una figura super partes, in grado di riunire le varie anime nel nome di un “nuovo Ulivo”, esiste davvero e risponde al nome di Giuliano Pisapia. Nella sinistra Pd e fuori di essa, le simpatie verso l’ex sindaco di Milano sono note. Addirittura, gli viene perdonato come in tempi di referendum, avesse scelto il Sì, ma senza impegnarsi attivamente per la causa renziana. Insomma, un personaggio piuttosto ingombrante, una candidatura potenzialmente capace di riunire il Partito democratico agli ex alleati bersaniani e non solo, di fronte a cui lo stesso Renzi, pur favorito alle primarie, rischia di non avere argomenti sufficienti per opporsi.
Del resto, “remuntada” o no, pure lo stesso Barcellona, non è detto che a maggio vincerà la Champions League…
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