La vendita con riserva di proprietà è un tipo di contratto che permette di prendere subito possesso di un immobile, mentre la proprietà resta al venditore, finché i pagamenti non sono terminati. Se l’acquirente non onora il contratto, il venditore dovrà restituire i soldi ricevuti, trattenendo l’ equivalente dell’ affitto non percepito ed, eventualmente, anche un indennizzo.
Dal punto di vista fiscale, la vendita con riserva di proprietà ha un punto debole perché, trattandosi di un contratto di compravendita a tutti gli effetti, prevede che le tasse vengano pagate fin da subito. Inoltre, a carico dell’acquirente, sono l’imposta sull’immobile, le tasse sui rifiuti, le spese ordinarie e straordinarie manutentive e quelle di ristrutturazione.
Un caso esemplificativo di quanto in premessa, è quello che ha recentemente trattato il Nucleo di Polizia Tributaria del Piemonte (conclusosi con sentenza del novembre 2013) , che ha sottoposto a verifica le attività delle gestioni finanziarie e immobiliari, dal 2002 al 2004, della G. s.p.a., società operativa nel settore edilizio ed immobiliare. All’esito, il nucleo ha redatto un p.v.c. sulla cui base l’Ufficio ha emesso a carico della società un avviso di accertamento, procedendo alla ripresa a tassazione, per l’anno 2002, di IVA, IRPEG e IRAP ed irrogando, altresì, le sanzioni previste per le violazioni accertate.
La società contribuente e l’Agenzia delle Entrate hanno proposto ricorso innanzi alla CTP di Torino e, successivamente, appello principale ed appello incidentale innanzi alla CTR del Piemonte, la quale ha confermato integralmente la sentenza impugnata, rigettando i gravami proposti. Secondo la CTR, infatti, il primo giudice aveva correttamente considerato che, ai fini della contabilizzazione , regolata dall’art.75 c.2 lett. a, Dpr n.917/87, andava considerato il momento della stipulazione del contratto di locazione immobiliare, con clausola di trasferimento della proprietà del bene locato “vincolante per entrambe le parti”, non evincendosi dallo stesso che il passaggio del dominio fosse successivo. Tale conclusione sarebbe stata comunque corretta, anche a volere considerare l’esistenza di un collegamento negoziale fra locazione e preliminare di vendita, proprio in relazione alla causa in concreto perseguita dalle parti, sovrapponibile a quella risultante dall’inquadramento dell’intesa nell’alveo della locazione, con clausola di trasferimento della proprietà. La società contribuente ha proposto ricorso per Cassazione, affidato a cinque motivi, ma l’A.D.E. ha resistito con controricorso e ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo. Pertanto, la C.di Cassazione, con sentenza n. 23734 del 21/11/13, ha rigettato il ricorso principale e ha accolto quello incidentale e la relativa sentenza d’appello, anche in ordine alla discriminante di cui all’art. 6 del D.lgs.n.472/1997. Ne è conseguita una condanna al pagamento delle spese del giudizio di legittimità alla società contribuente, che ha dovuto liquidare 20.000,00 euro per compensi, oltre alle spese prenotate a debito, e compensare le spese della fase di merito.
La CTR ha considerato che, al momento della conclusione del negozio giuridico e della concessione in godimento, i contraenti volessero il verificarsi dell’effetto traslativo della proprietà, che rispondeva integralmente alla finalità antielusiva perseguita dal già citato art. 75, rivolta ad evitare che, mediante la stipulazione di un contratto di locazione, con patto di futura vendita, fosse indebitamente rinviata al futuro, da parte del venditore o del locatore, l’imputazione a periodo dei componenti di reddito. La CTR ha ritenuto che “nel dubbio se la somma di danaro sia stata versata a titolo di acconto sul prezzo o a titolo di caparra, si deve ritenere che il versamento sia avvenuto a titolo di acconto sul prezzo”, atteso che, per potere affermare la stipulazione di una caparra confirmatoria, deve verificarsi con certezza che le parti abbiano inteso conseguire gli scopi pratici di cui all’art. 1385 c.c.. Ne consegue che la s.p.a. contribuente avrebbe dovuto produrre i contratti dai quali sarebbe dovuta risultare l’esistenza della pattuizione, che riconduceva il versamento delle somme alla concordata caparra. “Nel caso di pagamento di acconti anteriore alla cessione o alla prestazione di servizi, l’imposta diventa esigibile all’atto dell’incasso, a concorrenza dell’importo incassato” (D.p.r.n.633/72). Il giudice europeo ha ritenuto, dunque, che nel caso di versamento in acconto “…affinché l’imposta possa diventare esigibile occorre che tutti gli elementi qualificanti del fatto generatore, vale a dire la futura cessione o la futura prestazione, siano già conosciuti e dunque, in particolare che, nel momento del versamento dell’acconto, i beni o i servizi siano specificamente individuati.” Ciò perché quando vengono incassati acconti anteriormente al fatto generatore, il loro incasso rende esigibile l’imposta, poiché i contraenti dimostrano in tal modo di voler trarre anticipatamente tutte le conseguenze finanziarie legate alla realizzazione del fatto generatore”.
Poiché sul contribuente ricadeva l’onere di dimostrare se l’importo versato fosse caparra o acconto, con la sua condotta la s.p.a. ha reso inesigibile l’imposta dovuta sull’acconto, rendendo impossibile anticipare tutte le conseguenze finanziarie legate alla realizzazione del fatto generatore.
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