La legge (Decreto legislativo numero 151 del 26 marzo 2001) prevede infatti il divieto di interrompere il rapporto con la lavoratrice dall’inizio della gravidanza sino al compimento di un anno di età del bambino.
La stessa normativa riconosce tuttavia una serie di deroghe, tra cui l’ipotesi di cessazione dell’azienda. Nel tempo la giurisprudenza di Cassazione ha limitato il divieto ai soli casi di interruzione totale dell’attività aziendale, escludendosi pertanto la semplice chiusura del ramo d’azienda o del reparto cui l’interessata è addetta.
Intervenendo in una controversia tra l’INPS ed una lavoratrice che lamentava il mancato riconoscimento dell’indennità economica per maternità facoltativa, la Suprema Corte ribadisce la necessità di una cessazione totale dell’azienda al fine di legittimare il licenziamento nei confronti della lavoratrice madre.
Analizziamo la questione in dettaglio.
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Licenziamento lavoratrice madre: la controversia
La lite approdata in Cassazione nasce dalla domanda di una lavoratrice nei confronti dell’INPS, volta ad ottenere la copertura economica garantita dall’indennità di maternità a carico dell’ente previdenziale, nel corso del periodo di astensione facoltativa.
La sentenza di primo grado non riconosceva il diritto della lavoratrice alla prestazione economica, in quanto la stessa era stata licenziata per cessazione dell’attività aziendale, causa derogativa al divieto di licenziamento.
A questo punto l’interessata ricorreva in Corte d’appello, la quale a sua volta rigettava la domanda proposta nei confronti dell’INPS. In particolare la Corte sottolineava che la lavoratrice non aveva mai eccepito in giudizio la nullità del licenziamento, in quanto la cessazione dell’attività era limitata a una singola unità produttiva e non all’intera azienda.
Soccombente in secondo grado, la lavoratrice ricorreva in Cassazione lamentando la violazione e falsa applicazione del Decreto legislativo numero 151/2001 nella parte in cui vieta il licenziamento soltanto nelle ipotesi di cessazione totale dell’attività aziendale.
Licenziamento lavoratrice madre: la sentenza
Investita della controversia, la Cassazione esclude qualsiasi errore in Corte d’appello circa l’applicazione del divieto di licenziamento, dal momento che la lavoratrice, nel corso del processo, non ha mai fornito evidenza sulla parzialità della chiusura aziendale, allegando ad esempio la lettera di licenziamento.
Nel rigettare il ricorso dell’interessata, la Suprema corte ribadisce il principio contenuto in altre sentenze (Cassazione numero 22720/2017) per cui, si legge nel testo, in tema di “tutela della lavoratrice madre, la deroga al divieto di licenziamento di cui all’art. 54, comma 3, lett. b), del dlgs. n. 151 del 2001, dall’inizio della gestazione fino al compimento dell’età di un anno del bambino, opera solo in caso di cessazione dell’intera attività aziendale, sicché, trattandosi di fattispecie normativa di stretta interpretazione, essa non può essere applicata in via estensiva od analogica alle ipotesi di cessazione dell’attività di un singolo reparto dell’azienda, ancorché dotato di autonomia funzionale”.
Licenziamento lavoratrice madre: cessazione dell’attività aziendale
L’esclusione del divieto di licenziamento in caso di cessazione dell’attività aziendale è stata espressamente prevista dal Dlgs. n. 151/2001. Numerose sentenze di Cassazione hanno confermato l’orientamento della sentenza del 20 maggio scorso.
In particolare, con l’esonero al divieto di licenziamento, riconosciuto all’articolo 54 comma 3 lettera b) ai casi di “cessazione dell’attività dell’azienda” cui la lavoratrice è addetta, il recesso è da intendersi giustificato solo in presenza di una cessazione totale dell’attività aziendale.
Sono pertanto escluse le casistiche di cessazione del ramo d’azienda cui la lavoratrice è addetta. E’ stato inoltre ritenuto illegittimo il recesso motivato da ragioni di ristrutturazione produttivo – organizzativa, dal momento che non rappresentano un’ipotesi di cessazione dell’attività aziendale.
Licenziamento lavoratrice madre: quando opera il divieto
Il Decreto legislativo numero 151/2001 vieta il licenziamento della lavoratrice dall’inizio della gravidanza (da intendersi avvenuta trecento giorni prima della data presunta del parto indicata nel certificato di gravidanza) sino al compimento di un anno di età del bambino.
È inoltre vietato il licenziamento:
- Del padre lavoratore che fruisce del congedo di paternità, per l’intera durata dell’assenza sino al compimento di un anno di età del bambino;
- Determinato dalla domanda o dal godimento, da parte del lavoratore o della lavoratrice, del congedo parentale o dell’assenza per malattia del bambino.
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Licenziamento lavoratrice madre: nullità del licenziamento
Il licenziamento intimato nel periodo in cui opera il divieto è nullo.
La conseguenza opera a prescindere dal fatto che l’azienda fosse o meno a conoscenza della condizione della lavoratrice. Quest’ultima dovrà semplicemente dimostrare l’esistenza, presentando idonea certificazione, delle condizioni che vietavano il licenziamento al momento del recesso da parte dell’azienda.
Licenziamento lavoratrice madre: quando non opera il divieto
Ai sensi dell’articolo 54 comma 3 del Dlgs. n. 151/2001 il divieto di licenziamento non opera in una serie tassativa di ipotesi:
- Colpa grave costituente giusta causa di risoluzione del rapporto (la Cassazione ha ritenuto legittimo il licenziamento conseguente ad assenza ingiustificate);
- La già citata ipotesi della cessazione dell’attività aziendale;
- Ultimazione della prestazione per cui la lavoratrice è stata assunta ovvero scadenza del termine nei contratti a tempo determinato;
- Esito negativo del periodo di prova (il licenziamento è legittimo solo se l’azienda non è conoscenza dello stato di gravidanza, in caso contrario il datore dovrà motivare il giudizio negativo sul periodo di prova).
Con riferimento al terzo punto, la giurisprudenza di Cassazione ha sottolineato che la legge intende riferirsi esclusivamente all’ipotesi della scadenza del contratto a termine, a nulla rilevando la casistica sull’ultimazione della prestazione.
In particolare, è stato ritenuto illegittimo il recesso intimato nell’ambito di un appalto per servizi di pulizie, in caso di subentro di un’altra società che assume tutti i lavoratori eccezion fatta per una lavoratrice assente in maternità (Cassazione sentenza n. 12569/2003).
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