Il datore di lavoro può interrompere il rapporto per una serie di ragioni legate all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa: si parla in questi casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO), fattispecie ben diversa dalle ipotesi di recesso per: giusta causa (a fronte di un comportamento del dipendente, talmente grave da non consentire la prosecuzione); giustificato motivo soggettivo, determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore.
Il ricorso al licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo se:
- Il riassetto organizzativo dell’azienda è effettivo (non pretestuoso) e fondato su circostanze realmente esistenti al momento della comunicazione del recesso;
- Sussiste un nesso causale tra il licenziamento del lavoratore e il riassetto aziendale;
- La scelta del lavoratore da licenziare avviene secondo correttezza e buona fede, senza che si verifichino atti discriminatori;
- Viene rispettato il periodo di preavviso.
Un’ulteriore condizione di legittimità del licenziamento riguarda l’onere della prova in capo al datore di lavoro di dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni (detto anche onere di repêchage).
La recente ordinanza della Cassazione del 30 gennaio 2024 numero 2739 ha sottolineato l’obbligo in capo al datore di lavoro, prima di intimare il licenziamento, di ricercare possibili soluzioni alternative anche attraverso l’assegnazione a mansioni inferiori.
Analizziamo la questione in dettaglio.
Indice
- Le origini della pronuncia della Cassazione
- Obbligo repêchage anche con inquadramento inferiore
- La tesi risale alle Sezioni Unite del 1998
- Principio esteso al licenziamento per giustificato motivo oggettivo
- Come deve comportarsi il datore di lavoro
- Come funziona il repêchage
- Pronuncia finale della cassazione sul repechage
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Le origini della pronuncia della Cassazione
L’ordinanza della Suprema Corte numero 2739/2024 trova le sue origini dal licenziamento di una dipendente, cui erano affidate le mansioni di centralinista, intimato il 18 maggio 2016.
L’impugnativa del licenziamento, dopo essere stata accolta in primo grado, è stata respinta in appello.
La Corte di Appello di Roma, in particolare, ha ritenuto provata “la impossibilità di utilizzare l’attività lavorativa” della dipendente interessata “in altro settore con mansioni equivalenti”.
Avverso la sentenza di secondo grado, la lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione, fondato su quattro motivi.
Di questi, la Suprema Corte ne accoglie la metà (due su quattro).
Per quanto di nostro interesse, tra le doglianze condivise dagli Ermellini, figura la violazione e falsa applicazione “dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 (Art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.) e dell’art. 2103 c.c. in ordine al repêchage in mansioni inferiori”.
Obbligo repêchage anche con inquadramento inferiore
La Corte di Cassazione, come si legge nell’ordinanza, denuncia il fatto che nella pronuncia di secondo grado emerge la tesi per cui l’onere di provare l’impossibilità di ricollocare il lavoratore da licenziare è limitato “alla possibilità che quest’ultimo possa svolgere mansioni comunque equivalenti a quelle precedentemente espletate”.
In questo modo si trascura il fatto che, per condivisa giurisprudenza di Cassazione, l’indagine dev’essere estesa altresì “all’impossibilità di svolgere mansioni anche inferiori”.
La tesi risale alle Sezioni Unite del 1998
L’ordinanza del 30 gennaio 2024 ricorda che già la Cassazione, con la pronuncia numero 7755 del 1998, ha sancito il principio per il quale la permanente impossibilità della prestazione lavorativa può oggettivamente giustificare il licenziamento ai sensi della Legge numero 604/1966, articolo 3, sempre “che non sia possibile assegnare il lavoratore a mansioni non solo equivalenti, ma anche inferiori” (ordinanza del 30 gennaio 2024).
La teoria delle Sezioni Unite riposa sulla prevalenza dell’interesse del lavoratore al mantenimento del posto, rispetto alla salvaguardia di una professionalità che sarebbe comunque compromessa dall’estinzione del rapporto.
Principio esteso al licenziamento per giustificato motivo oggettivo
La teoria della prevalenza dell’interesse del dipendente alla salvaguardia dell’occupazione, ricorda la Suprema Corte, originariamente affermato in caso di sopravvenuta infermità permanente, è stato poi esteso anche alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo dovute alla soppressione del posto di lavoro, in seguito a riorganizzazione aziendale.
La ragione dell’estensione della teoria in parola ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo è giustificata dalla presenza delle medesime esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro, da ritenersi prevalenti su quelle di salvaguardia della professionalità del dipendente.
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Come deve comportarsi il datore di lavoro
In virtù della citata teoria della prevalenza dell’interesse alla salvaguardia del posto di lavoro, sancita dalla Cassazione, il datore di lavoro, ricorda l’ordinanza della Corte, prima di ricorrere al licenziamento e ai fini della legittimità dello stesso, è tenuto “a ricercare possibili soluzioni alternative e, ove le stesse comportino l’assegnazione a mansioni inferiori, a prospettare al lavoratore il demansionamento”, in attuazione del principio di correttezza e buona fede. In questo senso di parla di repêchage.
E l’onere della prova in questi casi spetta al datore di lavoro. Secondo la Corte, il datore di lavoro non deve solo provare la sussistenza delle ragioni di carattere oggettivo poste a base del recesso, ma deve provare altresì l’inutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni analoghe a quelle precedentemente svolte, anche inferiori.
Secondo l’orientamento consolidato della Corte di legittimità, spetta al datore di lavoro provare l’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, senza che su quest’ultimo incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili
In quest’ottica il datore di lavoro può recedere dal contratto solo “ove la soluzione alternativa non venga accettata dal lavoratore”.
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Come funziona il repêchage
Come anticipato, tra le condizioni di legittimità del licenziamento per GMO figura l’onere in capo al datore di lavoro di provare l’impossibilità di adibire il dipendente ad altre mansioni che, come precisato dalla Corte di Cassazione nella ordinanza 2739/2024, possono essere anche inferiori.
L’eventuale modifica delle mansioni, conseguente al repêchage, deve comunque avvenire nel rispetto della normativa vigente.
L’onere probatorio circa l’impossibilità di ricollocare il dipendente, come anticipato, grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare che:
- All’atto del licenziamento i posti di lavoro residui erano occupati e che, in epoca successiva al recesso, non è stata effettuata alcuna nuova assunzione a tempo indeterminato in qualifica analoga a quella del dipendente licenziato;
- Che il dipendente non aveva la capacità professionale necessaria per occupare una diversa posizione;
- Che, all’atto del licenziamento, non esistono posizioni analoghe a quella soppressa e che il lavoratore non ha acconsentito al reimpiego in mansioni inferiori, rientranti nel suo bagaglio professionale.
Gruppo di società
Un caso particolare riguarda le società appartenenti al medesimo gruppo.
Se le relazioni all’interno del gruppo stesso sono tali da dar vita ad un unico centro di imputazione dei rapporti giuridici, l’impossibilità di adibire il dipendente ad altre mansioni dev’essere verificata anche nell’ambito delle altre realtà del gruppo.
Attività di lavoro autonomo: il repêchage è rispettato?
Come ha avuto modo di sottolineare la stessa Corte di Cassazione (sentenza 23 maggio 2013 numero 12810) l’onere di repêchage non si considera assolto a fronte della proposta al dipendente di svolgere un’attività di natura autonoma, esterna all’azienda e priva di qualsiasi garanzia reale in termini di impegno lavorativo e reddito.
Pronuncia finale della cassazione sul repechage
Detto ciò, la Corte prima messo in chiaro che l’affermazione della Corte territoriale (per cui sul lavoratore graverebbe un onere di allegazione dell’esistenza, nell’ambito della struttura aziendale, di posti di lavoro a cui poter essere utilmente adibito) contrasta con una giurisprudenza di legittimità ormai consolidata secondo cui invece “spetta al datore di lavoro l’allegazione e la prova dell’impossibilità di repêchage del dipendente licenziato, senza che sul lavoratore incomba un onere di allegazione dei posti assegnabili”.
C’è di più. Anche quanto affermato dalla Corte d’Appello di Roma, secondo cui l’onere della prova dell’impossibilità di ricollocare il lavoratore da licenziare sia limitato alla possibilità che quest’ultimo possa svolgere mansioni comunque equivalenti a quelle precedentemente espletate, si porrebbe in contrasto con un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato.
Quindi, affinché il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ragioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo) sia legittimo, è necessario che il datore di lavoro provi l’impossibilità di ricollocare il lavoratore su mansioni diverse non solo equivalenti, ma anche inferiori.