In più riprese Luigi Oliveri ha energicamente sostenuto su queste pagine che già oggi l’art. 18 è applicabile, e semmai ci vorrebbe una legge per escluderlo.
La questione è comunque molto “calda”, perché i ministri Fornero e Patroni Griffi hanno polemizzato, sostenendo tesi opposte, a favore e contro l’estensione della normativa sui licenziamenti.
La prima è senz’altro a favore, perché non trova giustificazioni alla diversità di trattamento; il secondo è contrario alla tutela per risarcimento, cioè escludendo il reintegro, perché ritiene che nessun dirigente finerebbe con il licenziare, se al licenziamento seguisse un esborso di denaro pubblico.
I sindacati protestano, perché il 3 maggio hanno raggiunto un accordo quadro sulla riforma del pubblico impiego, che non contempla la tutela per risarcimento contro i licenziamenti, anzi prevede espressamente “garanzie di stabilità in caso di licenziamento illegittimo”.
Nel frattempo, sempre su queste pagine Francesca Ciangola ci ha segnalato la sentenza della Corte Costituzionale n. 120 del 2012, la quale afferma nuovamente che il regime del lavoro privato e di quello pubblico non possono essere totalmente omogenei.
Quest’ultima sentenza, a sua volta, cita altri precedenti della Corte, tra i quali vorrei segnalarvi la n. 146 del 2008.
Lì la Corte ha osservato che la pubblica Amministrazione è un datore di lavoro molto diverso da quello privato, perché persegue l’interesse pubblico e perché, nel perseguirlo, è tenuta “al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa”.
Quei principi “pesano” molto anche nelle vita lavorativa di tutti i giorni: basterà osservare che una parte della Cassazione sezione lavoro sostiene che danno diritti ai pubblici dipendenti, immediatamente spendibili; ma di questo parleremo un’altra volta.
Tornando al nostro tema, se è esatto quello che dice la Corte Costituzionale, qualsiasi norma sui pubblici impiegati deve mediare interessi molto diversi, rispetto a quelli del lavoro privato.
In questo gioca l’interesse al profitto del datore di lavoro contro quello alla libertà e dignità del lavoratore.
Nel rapporto di lavoro pubblico, la mediazione è tra gli interessi costituzionalmente protetti, che giustificano la stessa esistenza del datore di lavoro pubblico, contro quelli del lavoratore.
Ma gli interessi pubblici sono intestati ad un soggetto anomalo, cioè l’ente pubblico il quale – specialmente se è di piccole o medie dimensioni – è permeato sino in fondo dall’influenza politica, la quale se ne infischia di quegli interessi, ed agisce secondo la propria convenienza, e con un ottica di brevissimo periodo.
D’altronde il dirigente pubblico in genere – e salve lodevoli eccezioni – agisce secondo il canone fondamentale di adottare solo quegli atti, che lo esentano comunque da qualsiasi responsabilità.
Ecco che, per la combinazione delle influenze politiche e della prudenza dei dirigenti pubblici, da un lato i dipendenti possono vedersi esposti a licenziamenti per ritorsioni politiche, dall’altro è fatale che – come ha osservato il ministro Patroni Griffi – qualsiasi dirigente non licenzierà mai anche il peggiore dipendente, se un domani dovesse rispondere lui del risarcimento dovuto per il licenziamento illegittimo.
La morale della storia è che bisogna andarci molto piano ad estendere indiscriminatamente le norme sul lavoro privato a quello pubblico.
Non si tratta di difendere i fannulloni, ma di guardare a come vanno le cose nella realtà effettuale (per scomodare Machiavelli) dei datori di lavoro pubblici.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento