Più nel dettaglio, l’art. 31 incide, nella materia degli esercizi commerciali, sull’art. 3, comma 1, lettera d-bis, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (convertito in legge 4 agosto 2006, n. 248 introdotto dall’art. 35, comma 6, legge n. 111 del 2011 (recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), estendendo in via ordinaria e per tutti i comuni d’Italia l’abolizione di limiti attinenti il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale degli esercizi commerciali.
Va rammentato al riguardo che l’art. 3 del D.L. n. 223/2006, nel dettare le regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale, predicava espressamente il rispetto delle disposizioni dell’ordinamento comunitario in materia di tutela della concorrenza e libera circolazione delle merci e dei servizi ed al fine di garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, ai sensi dell’articolo 117, comma secondo, lettere e) ed m), della Costituzione.
Alla stregua della novella in commento, pertanto, è previsto che le attività commerciali, come individuate dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande, sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni:
a) l’iscrizione a registri abilitanti ovvero possesso di requisiti professionali soggettivi per l’esercizio di attività commerciali, fatti salvi quelli riguardanti il settore alimentare e della somministrazione degli alimenti e delle bevande;
b) il rispetto di distanze minime obbligatorie tra attività commerciali appartenenti alla medesima tipologia di esercizio;
c) le limitazioni quantitative all’assortimento merceologico offerto negli esercizi commerciali, fatta salva la distinzione tra settore alimentare e non alimentare;
d) il rispetto di limiti riferiti a quote di mercato predefinite o calcolate sul volume delle vendite a livello territoriale sub regionale;
d-bis) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l’obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell’esercizio;
e) la fissazione di divieti ad effettuare vendite promozionali, a meno che non siano prescritti dal diritto comunitario;
f) l’ottenimento di autorizzazioni preventive e le limitazioni di ordine temporale o quantitativo allo svolgimento di vendite promozionali di prodotti, effettuate all’interno degli esercizi commerciali, tranne che nei periodi immediatamente precedenti i saldi di fine stagione per i medesimi prodotti;
f-bis) il divieto o l’ottenimento di autorizzazioni preventive per il consumo immediato dei prodotti di gastronomia presso l’esercizio di vicinato, utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda con l’esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l’osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie.
Già il D.L. n. 223/2006 prevedeva che a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto sarebbero state abrogate le disposizioni legislative e regolamentari statali di disciplina del settore della distribuzione commerciale incompatibili con le disposizioni in argomento, prescrivendo che entro il 1° gennaio 2007 le regioni e gli enti locali avrebbero adeguato le proprie disposizioni legislative e regolamentari ai predetti principi.
Eppure, nonostante il richiamato precetto e più in genere l’indole programmatoria del c.d. Decreto Bersani, l’ordinamento, soprattutto a livello locale, non è stato in grado di dare effettiva attuazione ai principi comunitari in tema di libera concorrenza ed abbattimento delle barriere burocratiche per quel che attiene nello specifico agli esercizi commerciali
Anche per tale ragione, e per tentare di arginare l’avanzato stato di crisi economica in cui si trova il paese, il nuovo esecutivo ha ribadito ancora una volta, al secondo comma della disposizione in commento, che “Secondo la disciplina dell’Unione Europea e nazionale in materia di concorrenza, libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, costituisce principio generale dell’ordinamento nazionale la libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali sul territorio senza contingenti, limiti territoriali o altri vincoli di qualsiasi altra natura, esclusi quelli connessi alla tutela della salute, dei lavoratori, dell’ambiente e dei beni culturali. Le Regioni e gli enti locali adeguano i propri ordinamenti alle prescrizioni del presente comma entro 90 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto”.
Si rammenti al riguardo che più volte il Giudice Amministrativo è intervenuto in sede di sindacato di legittimità in relazione a provvedimenti amministrativi che impongono limiti irragionevoli all’esercizio commerciale e più in genere alla libertà dell’iniziativa economica, e ciò al fine di dare concretezza ai postulati comunitari in tema di libertà di concorrenza ed accesso al mercato.
Va sul punto segnalata una recente pronuncia del TAR Lazio sezione II-ter 2758/2010 che ha bocciato una delibera del Comune di Roma, la 36/2006 con cui – a integrazione della precedente delibera 187/03 -, l’amministrazione capitolina dettava nuove regole in materia di riqualificazione del commercio, dell’artigianato e delle altre attività esercitabili in centro storico. La delibera veniva impugnata dal proprietario di una gelateria artigiana cui si negava l’apertura, nella parte in cui il provvedimento comunale disponeva il divieto – nelle zone di rispetto e nei rioni Pigna, Colonna, Campo Marzio, S. Angelo – di apertura di nuove attività di gelateria artigianale. Il ricorrente chiedeva l’annullamento dei provvedimenti adottati dal Comune di Roma deducendone l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere sotto vari profili. In realtà la delibera del Comune di Roma, seppur motivata con la necessità di riqualificare il commercio e l’artigianato, disponeva semplicemente, come misura specifica, il divieto di apertura di nuove attività, senza alcuna forma di programmazione, senza neppure prevedere alcun periodo di transizione o regolamentare gli eventuali subentri.
Il TAR Lazio, pur riconoscendo in capo all’amministrazione comunale un potere di controllo sulle attività intraprese particolarmente penetrante sui nuovi insediamenti produttivi del centro storico, al fine di salvaguardare le caratteristiche morfologiche degli insediamenti e il rispetto dei vincoli relativi al patrimonio artistico ed ambientale, ha affermato che il detto potere di controllo e di autorizzazione del Comune debba essere esercitato nel quadro generale dei principi che governano la materia e nell’ambito delle attività ormai in essere nella città storica e soprattutto tenendo conto delle singole caratteristiche dei locali in cui esse si svolgono, al fine di contemperare l’interesse pubblico al decoro ed alla salvaguardia del centro storico di Roma e l’incomprimibile esigenza degli imprenditori privati che nel centro storico esercitano o vorrebbero esercitare la loro impresa.
Alla stregua di tale premessa, pertanto, la delibera impugnata è stata ritenuta illegittima in quanto immotivatamente pone un divieto assoluto per un preciso tipo di attività commerciale, senza tener conto di parametri legati al territorio, o al numero di attività similari già in essere, e si pone in violazione, in primo luogo, del principio del libero esercizio dell’attività imprenditoriale; in secondo luogo appare irragionevole anche in relazione ai criteri succitati volti alla promozione delle attività artigianali rispetto a quelle di carattere industriale.
A ben vedere, infatti, secondo il Giudice Amministrativo l’esercizio del potere di controllo ed indirizzo da parte dell’amministrazione comunale deve esplicarsi secondo criteri di ragionevolezza che impongono di astenersi dal porre divieti assoluti ad alcune categorie di attività commerciali, modificando senza alcuna fase di transizione, il relativo regime autorizzatorio.
Ci si augura, pertanto, che, anche in forza della novella introdotta dall’art. 31 comma 2 D.L. n. 201/2011, le attività commerciali siano effettivamente poste nella condizione di esplicarsi nel gioco della libera concorrenza e senza risultare limitari dalla imposizione di contingenti, limiti territoriali o di altri vincoli di qualsiasi altra natura come tali escludenti le garanzie dettate a livello comunitario.
Per altro verso, occorre segnalare la disposizione contenuta nell’art. 34 in tema di liberalizzazione delle attività economiche ed eliminazione dei controlli ex-ante, laddove è espressamente disposto che la finalità è quella di garantire, in armonia con l’art. 117, comma 2, lettere e) ed m), della Costituzione, la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità e il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonchè per assicurare ai consumatori finali un livello minimo e uniforme di condizioni di accessibilità ai beni e servizi sul territorio nazionale, e ciò con obbligo espresso alle Regioni di adeguamento della legislazione di loro competenza ai riferiti principi e regole generali.
A tal riguardo, è stabilito che “La disciplina delle attività economiche è improntata al principio di libertà di accesso, di organizzazione e di svolgimento, fatte salve le esigenze imperative di interesse generale, costituzionalmente rilevanti e compatibili con l’ordinamento comunitario, che possono giustificare l’introduzione di previ atti amministrativi di assenso o autorizzazione o di controllo, nel rispetto del principio di proporzionalità”.
Per altro verso, con disposizione in commento sono abrogate le seguenti restrizioni disposte dalle norme vigenti:
a) il divieto di esercizio di una attività economica al di fuori di una certa area geografica e l’abilitazione a esercitarla solo all’interno di una determinata area;
b) l’imposizione di distanze minime tra le localizzazioni delle sedi deputate all’esercizio di una attività economica;
c) il divieto di esercizio di una attività economica in più sedi oppure in una o più aree geografiche;
d) la limitazione dell’esercizio di una attività economica ad alcune categorie o divieto, nei confronti di alcune categorie, di commercializzazione di taluni prodotti;
e) la limitazione dell’esercizio di una attività economica attraverso l’indicazione tassativa della forma giuridica richiesta all’operatore;
f) l’imposizione di prezzi minimi o commissioni per la fornitura di beni o servizi;
g) l’obbligo di fornitura di specifici servizi complementari all’attività svolta.
L’introduzione di un regime amministrativo volto a sottoporre a previa autorizzazione l’esercizio di un’attività economica deve essere giustificato sulla base dell’esistenza di un interesse generale, costituzionalmente rilevante e compatibile con l’ordinamento comunitario, nel rispetto del principio di proporzionalità.
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato è tenuta a rendere parere obbligatorio, da rendere nel termine di trenta giorni decorrenti dalla ricezione del provvedimento, in merito al rispetto del principio di proporzionalità sui disegni di legge governativi e i regolamenti che introducono restrizioni all’accesso e all’esercizio di attività economiche.
È inoltre previsto che quando è stabilita la necessità di alcuni requisiti per l’esercizio di attività economiche, la loro comunicazione all’amministrazione competente deve poter essere data sempre tramite autocertificazione e l’attività può subito iniziare, salvo il successivo controllo amministrativo, da svolgere in un termine definito; restano salve le responsabilità per i danni eventualmente arrecati a terzi nell’esercizio dell’attività stessa.
A ben vedere, la disposizione in commento, si riconnette alla disciplina dettata dalla direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno”, di seguito recepita in Italia con il D. Lgs. 26 marzo 2010, n.59.
Proprio sul punto l’art. 16 della direttiva (Libera prestazione di servizi) stabilisce categoricamente che “Gli Stati membri non possono subordinare l’accesso a un’attività di servizi o l’esercizio della medesima sul proprio territorio a requisiti che non rispettino i seguenti principi: a) non discriminazione: i requisiti non possono essere direttamente o indirettamente discriminatori sulla base della nazionalità o, nel caso di persone giuridiche, della sede, b) necessità: i requisiti devono essere giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela dell’ambiente, c) proporzionalità: i requisiti sono tali da garantire il raggiungimento dell’obiettivo perseguito e non vanno al di là di quanto è necessario per raggiungere tale obiettivo”, laddove l’art. 4 della direttiva precisa che per servizio deve essere inteso “servizio”: qualsiasi attività economica non salariata di cui all’articolo 50 del trattato fornita normalmente dietro retribuzione”, e per prestatore “2) “prestatore”: qualsiasi persona fisica, avente la cittadinanza di uno Stato membro, o qualsiasi persona giuridica di cui all’articolo 48 del trattato, stabilita in uno Stato membro, che offre o fornisce un servizio”.
È di tutta evidenza, pertanto, l’intento del nuovo esecutivo di attribuire nuova forza cogente ai postulati comunitari in tema di liberà di accesso al mercato nel rispetto della libera concorrenza e dell’iniziativa economica, come tali già espressi dal D. Lgs. 26 marzo 2010, n.59 eppure non adeguatamente resi operativi dall’ordinamento, nazionale e locale, e solo oggi, a fronte della grave crisi economica in cui versa l’Italia, ribaditi in funzione di una effettiva ripresa del motore economico del Paese.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento