Liberalizzazione dei diritti connessi: cambiare tutto per non cambiare nulla?

Nel libro che ho ultimato qualche settimana fa sulle società di gestione collettiva (Copyright Collecting Societies e regole di concorrenza, Giappichelli, Torino), nel concludere il mio commento alla proposta di direttiva che dovrebbe modificare l’attuale assetto nella intermediazione del diritto d’autore e dei diritti connessi, avevo osservato quanto segue (spero vogliate perdonare l’autocitazione):

La liberalizzazione del mercato delle società di gestione collettiva pensato dalla Commissione rischia però di essere aggirato a livello nazionale, dal recepimento da parte degli Stati membri. Il rischio cui facciamo riferimento è relativo alla predisposizione di determinati standard per le collecting societies, che potrebbero essere imposti ex lege.

Si pensi, ad esempio, all’imposizione di un capitale minimo, all’obbligo di fideiussioni bancarie o di un numero minimo di dipendenti, o ancora ad un numero minimo di membri. Per questa via, quindi, è possibile aggirare surrettiziamente gli obiettivi della direttiva che rischierebbe, a livello nazionale, ad essere svuotata di contenuto. Il timore rappresentato pare essere tutt’altro che infondato, atteso che, nel momento in cui si scrive, è in discussione la bozza di regolamento per la liberalizzazione dei diritti connessi e detto decreto contiene alcune delle previsioni illustrate.

L’obiettivo delle lobby che stanno sostenendo questa linea è evidente: mantenere lo status quo e predisporre delle barriere giuridiche ed economiche all’ingresso di nuovi concorrenti nel mercato del diritto d’autore e dei diritti connessi.

Si tratta, però, di una prospettiva miope che ricorda, sia consentito il parallelo, i banchetti nell’antica Roma quando oramai i barbari erano pronti al sacco della città.

L’impressione, in altri termini, è che le collecting societies italiane (SIAE e Nuovo IMAIE) stiamo tentando una battaglia di retroguardia quando la “guerra” è persa da tempo. Non si comprende, infatti, che senso abbia provare a limitare la costituzione di nuove società di gestione collettiva stabilite sul territorio nazionale, nel momento in cui la direttiva (e, ancor prima, la decisione CISAC) si avvia a consentire ai concorrenti stranieri di operare liberamente nel mercato nazionale.

Da un punto di vista imprenditoriale, sarebbe stato preferibile migliorare le proprie capacità competitive, preparandosi ad affrontare un mercato aperto ed, eventualmente, ragionare su nuovi potenziali mercati commerciali verso i quali espandersi.

Ancora una volta, il raffronto con le CCS inglesi appare inesorabile. Le nostre società sono in un netto ritardo sul piano tecnologico, non avendo voluto investire in innovazione tecnologica, e si trovano a fronteggiare enormi problemi nell’attribuzione dei diritti ai rispettivi titolari.

Un problema più volte sottolineato, che determina un calo della fiducia degli artisti verso le collecting societies ed una tendenziale migrazione verso altri operatori.

Eppure sono proprio le nuove tecnologie ad aver comportato un’internazionalizzazione del piano di operatività delle società nazionali di gestione collettiva: provare ad aggrapparsi ai retaggi del passato e professare l’immutabilità e l’immodificabilità di uno scenario economico oramai definitivamente sorpassato equivale – anche alla luce di quanto avvenuto in altri ambiti economici – ad un suicidio, frutto di una colpevole disattenzione verso l’andamento del mercato, per le collecting societies nazionali”.

La lettura dello Schema di decreto pubblicato sul sito del Governo dimostra che sono stato un buon profeta, sebbene la profezia fosse semplice.

Di questo schema ha già detto quasi tutto, con la sua consueta semplicità (tipica di chi ha le idee chiare), Guido Scorza su il Fatto Quotidiano.

Lascia, invece, molto perplessi – per essere eufemistici – la scelta di imporre un patrimonio minimo. Scelta che taglia le gambe ai nuovi operatori che si stavano affacciando sul mercato, anche recuperando – come nel caso di Artisti 7607 – l’originario carattere mutualistico e di reale assistenza agli appartenenti della categoria che, nel corso dell’ottocento, aveva condotto alla nascita delle prime collecting societies e, ammettiamolo, della stessa SIAE.

Da un punto di vista strettamente giuridico, poi, mi sembra che la soluzione governativa sia antitetica rispetto al D. Lgs. 26 marzo 2010, n. 59, che ha recepito la direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno, il cui art. 12 espressamente include, tra i requisiti il cui rispetto può condizionare l’accesso e l’esercizio di una attività di servizio in Italia, un capitale minimo o un numero minimo di dipendenti, ma solo laddove sussistano motivi imperativi di interesse generale.

Una soluzione, dunque, a forte rischio di contrarietà alla normativa comunitaria.

I motivi imperativi di interesse generale sono davvero presenti nel caso della gestione collettiva dei diritti connessi? A mio avviso no o, quanto meno, avrebbero potuto essere sostituiti con altre previsioni.

Perché ad esempio non imporre, in luogo di un patrimonio minimo, un obbligo di assicurazione, che meglio potrebbe tutelare i titolari dei diritti rispetto a possibili abusi o violazioni?

Le ragioni le avevo scritte e le ha ricordate anche Guido: limitare l’accesso di nuovi operatori, creare una liberalizzazione all’italiana, che si iscriva nella regola alla quale, da troppi anni, ci hanno abituato “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.

Giovanni Maria Riccio

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