Riordino province: le nuove dichiarazioni di Patroni Griffi

E’ stata sufficiente un’ordinanza del TAR Lazio che, non entrando nel merito del ricorso, ha respinto la richiesta di sospensione dell’efficacia della deliberazione del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012, con la quale sono stati fissati i requisiti minimi di popolazione (350.000 abitanti) e di superficie (2.500 kmq) che vincolano la procedura di “riordino” delle Province prevista dall’art. 17 della Legge 135/2012 (spending review), per ridare fiato a proclami riformatori, che superano i contenuti stessi delle norme oggi vigenti e in dispregio dei principi costituzionali.

Accade così che il Ministro per la Pubblica Amministrazione Filippo Patroni Griffi, assunto il ruolo di grande riformatore dell’organizzazione costituzionale della Repubblica, non lascia trascorrere giorno senza rilasciare dichiarazioni alla stampa sul futuro del nostro ordinamento, su cui è necessaria certamente qualche riflessione.

Con un comunicato ufficiale di giovedì 11 ottobre il Ministro afferma: “La decisione della I sezione del Tar del Lazio, che ha respinto le richieste di sospensione del riordino delle Province, ci spinge a proseguire ancora più speditamente nel processo avviato. A maggior ragione visto che viene considerata quanto meno auspicabile la rapida, positiva conclusione del confronto in atto per il completamento del processo di riordino delle Province”.

La dichiarazione giunge immediatamente prima del deposito delle Ordinanze del TAR del Lazio (n. 3665, 3666, 3668 e 3669 depositate l’11 ottobre su ricorsi delle Province di Lecco, Lodi, Treviso e Rovigo), che respingono la richiesta di sospensione dell’efficacia della deliberazione del Consiglio dei Ministri del 20 luglio 2012.

Con una decisione pilatesca, il TAR ha deciso di non decidere, pur non entrando nel merito delle rilevanti obiezioni di legittimità costituzionale sollevati sull’intero impianto normativo.

Obiezioni di costituzionalità sottolineati da illustri giuristi quali gli ex Presidenti della Corte Costituzionale – il prof. Valerio Onida e il prof. Piero Alberto Capotosti – o come il prof. Pietro Ciarlo, docente di Diritto Costituzionale presso l’Università di Cagliari.

Anziché rimettere gli atti alla Corte Costituzionale, il TAR del Lazio si è limitato a rilevare che, “impregiudicata ogni questione di carattere pregiudiziale”, non sono ravvisabili i paventati profili di immediata lesività dell’atto impugnato.

La delibera del Consiglio dei Ministri, secondo i giudici amministrativi, “costituisce infatti il primo segmento di una sequenza procedimentale che, a termini dell’art. 17 del d. l. 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla l. 7 agosto 2012, n. 135, se anche tendenzialmente conformata dai criteri previsti nell’atto stesso (comma 3), è destinata a concludersi con un provvedimento di natura legislativa (comma 4), il quale, fermi naturalmente i limiti costituzionali, è per definizione libero nel contenuto e nel fine”.

Non sfugga che in due passaggi della formula dell’ordinanza il TAR ha rilevato che è impregiudicata la questione pregiudiziale (la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale) e “i limiti costituzionali” cui è sottoposta la procedura.

Ma ciò che stupisce, non è il comunicato ufficiale, bensì l’interpretazione che della “non” decisione del TAR si è data agli organi di stampa, come se la stessa rappresenti il pieno riconoscimento della legittimità della procedura voluta dal Governo, dimenticando che sulla medesima è già stata fissata per il 6 novembre prossimo, in udienza pubblica, la trattazione dei ricorsi presentati alla Corte Costituzionale da sei Regioni – Piemonte, Lombardia, Veneto, Molise, Lazio e Campania – per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 23 commi 14-21, del decreto legge 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in Legge 22 dicembre 2011, n. 214.

E numerose Regioni – tra cui Veneto, Lazio, Umbria – hanno già deliberato di presentare ricorso alla Corte Costituzionale per la dichiarazione di illegittimità degli art. 17 e 18 della Legge 135/2012 in materia di riordino delle Province e istituzione delle città metropolitane.

Ma al di là delle interpretazioni giornalistiche, giova soffermarsi sulle dichiarazioni rese dal Ministro Patroni Griffi.

In una intervista rilasciata al quotidiano “La Stampa” pubblicata il 13 ottobre, il Ministro, sul processo di riordino delle Province, dichiara: “Beh, intanto il Tar ha sminato questo percorso dai ricorsi di quattro Province, confermando che si può andare avanti. A fine mese ci sarà un decreto che stabilirà modalità e tempi. Quindi, saranno nominati dei commissari, e si andrà al voto. Per il riordino, infatti, non è che si potesse attendere la naturale scadenza della consiliatura provinciale. Fatta la riforma bisogna partire con il nuovo assetto quanto prima”.

Innanzitutto, come abbiamo detto, il TAR non ha deciso alcunché sui ricorsi; ha semplicemente negato la richiesta di sospensione cautelare dell’efficacia della deliberazione del 20 luglio senza decidere nel merito.

Ma i punti su cui soffermarsi sono:

1)     A fine mese ci sarà un decreto che stabilirà tempi e modalità

2)     Saranno nominati i commissari e si andrà al voto

3)     Non si può attendere la naturale scadenza della consiliatura provinciale.

Sono tre affermazioni che sovvertono evidentemente i principi costituzionali.

1)     “A fine mese ci sarà un decreto che stabilirà tempi e modalità”

Un decreto legge?

L’art. 17, comma 4, della Legge 135/2012, alla fine del percorso – deliberazione del Consiglio dei Ministri, ipotesi di riordino formulata dai CAL (Consigli Autonomie Locali) e proposta di riordino delle Regioni –  prevede che “con atto legislativo di iniziativa governativa le province sono riordinate sulla base delle proposte regionali”.

Il legislatore ha considerato anche l’ipotesi che le proposte regionali non pervengano nel termine, e disposto che il provvedimento legislativo di riordino venga assunto, nel caso, “previo parere” della Conferenza unificata Stato-Regioni.

Non si vede come possa considerarsi costituzionalmente legittimo un decreto legge per il riordino delle Province.

Scrive il Presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida: “Quanto alla natura dell’atto legislativo che conclude il processo di riordino, ai sensi dell’art. 17, comma 4, il riferimento ad un “atto legislativo di iniziativa governativa” fa pensare ad un disegno di legge presentato dal Governo alle Camere.  Non pare invece a chi scrive che possa trattarsi di un decreto legge (che peraltro non sarebbe un atto “di iniziativa governativa”, ma un atto legislativo del Governo).  E ciò sia per ragioni di coerenza sistematica, poiché le variazioni alle circoscrizioni provinciali sono disposte con “leggi della Repubblica” ai sensi dell’art. 133, primo comma della Costituzione – riserva che pare debba intendersi come riserva di legge formale – , sia perché le ragioni straordinarie di urgenza che hanno giustificato l’avvio con decreto legge del processo di riordino sarebbero assai più difficilmente invocabili per concludere il medesimo una volta che si sia giunti alla formulazione delle proposte”.

Il Presidente emerito della Corte Costituzionale, Piero Alberto Capotosti, con ampie argomentazioni dimostra in modo inequivocabile la legittimità costituzionale della decretazione d’urgenza, già con riferimento allo stesso art. 17.

Scrive il prof. Capotosti:  “E’ da chiedersi se il ricorso alla decretazione di urgenza, nel caso in esame, sia conforme all’art. 77 della Costituzione, nell’attuale interpretazione della giurisprudenza costituzionale sulla permanente rilevanza dei presupposti di necessità ed urgenza. Il dubbio si fonda sulla circostanza che con l’art. 17 si introduce un’autentica riforma di sistema, la cui straordinaria necessità ed urgenza di attuazione è molto difficile da dimostrare.

Nella specie, non sembra infatti individuabile “la preesistenza di una situazione di fatto comportante la necessità e l’urgenza di provvedere, tramite l’utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto legge”, la cui mancanza, secondo la giurisprudenza costituzionale, costituisce appunto un vizio di costituzionalità del decreto (Corte costituzionale, sentenza n. 93 del 2011); vizio che, una volta intervenuta la legge di conversione, comporta un’illegittimità in procedendo della relativa legge (sentenza n. 128 del 2008). Si deve peraltro trattare, per essere rilevante, di un difetto dei presupposti “evidente” (sentenza n.171 del 2007).

Ma come non ritenere “evidente” tale difetto, considerando che il decreto introduce addirittura un’autentica riforma di sistema in materia di rilevanza costituzionale e che il relativo procedimento, che prevede una serie di interventi di determinati soggetti, si dovrebbe concludere con “un atto legislativo di iniziativa governativa” che è solo futuro ed eventuale nonché da adottare, in via di principio, una volta esplicati tutti gli adempimenti dell’articolato procedimento previsto?

Al riguardo si deve osservare che le numerose e in apparenza serrate scadenze temporali previste nel procedimento in esame devono in realtà qualificarsi come termini meramente “sollecitatori”, non essendo stabilita alcuna specifica decadenza per la loro inosservanza. Di conseguenza, non si può logicamente prevedere sin da oggi la durata effettiva di questo procedimento di riordino.

Nella specie, invece, si può dire che risulta, secondo la giurisprudenza costituzionale, “in contrasto con l’art. 77 Cost. la commistione e la sovrapposizione, nello stesso atto normativo, di soggetti e finalità eterogenee, in ragione di presupposti, a loro volta, eterogenei” (Corte cost. n. 22 del 2012).

In definitiva – conclude il prof. Capotosti – , sussistono forti perplessità, sul piano dei vizi formali di legittimità costituzionale, che la disciplina de qua possa costituire oggetto di un decreto-legge”.

Di fronte a tali argomentazioni, difficilmente confutabili, come può il Ministro ipotizzare un decreto legge che entro fine ottobre stabilisca “tempi e modalità” del riordino?

2)     Saranno nominati i commissari e si andrà al voto (presumibilmente con lo stesso decreto legge)

Il Ministro dimentica che l’art. 23 del D. L. 6 dicembre 2011 n. 201, convertito in Legge 22 dicembre 2011 n. 214 (salva Italia) dopo aver previsto che:

a)      Sono organi di governo della Provincia il Consiglio provinciale ed il Presidente della Provincia.  Tali organi durano in carica cinque anni.

b)     Il Consiglio provinciale è composto da non più di dieci componenti eletti dagli organi elettivi dei Comuni ricadenti nel territorio della Provincia. Le modalità di elezione sono stabilite con legge dello Stato entro il 31 dicembre 2012.

c)      Il Presidente della Provincia è eletto dal Consiglio provinciale tra i suoi componenti.

Al comma 20 precisa: “Agli organi provinciali che devono essere rinnovati entro il 31 dicembre 2012 si applica, sino al 31 marzo 2013 l’art. 141 del D. Lgs. 267/2000 e successive modificazioni. Gli organi provinciali che devono essere rinnovati successivamente al 31 dicembre 2012 restano in carica fino alla scadenza naturale. Decorsi i termini di cui al primo e al secondo periodo del presente comma, si procede all’elezione dei nuovi organi provinciali di cui ai commi 16 e 17”.

Andrebbe inoltre ricordato che il comma 20 venne riformulato in sede di conversione in legge del D. L. 201/2011 che nella formulazione originaria prevedeva:  “Con legge dello Stato è stabilito il termine decorso il quale gli organi in carica delle Province decadono”, a seguito di fondate obiezioni, anche da parte della Presidenza della Repubblica, sulla legittimità costituzionale della decadenza anticipata di organi democraticamente eletti.

Il disegno di legge sulle modalità di elezione di “secondo grado” degli organi delle Province, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 aprile 2012 è fermo in Commissione Parlamentare e non si è ancora avviato l’esame.

Ma è davvero pensabile disporre con decreto legge la decadenza di organi democraticamente eletti e nominare commissari?

E la decadenza riguarderebbe soltanto le Province soggette a “riordino” o anche le Province salvaguardate in quanto in possesso dei requisiti?

Nel primo caso di determinerebbe un inaccettabile palese disparità nella rappresentanza di molti territori, già peraltro determinata dal Commissariamento del tutto ingiustificabile delle otto Province che avrebbero dovuto andare al voto nella primavera scorsa.

I cittadini di diverse Province (circa metà delle Province attuali) – a differenza delle altre – non avrebbero più una rappresentanza politica portatrice dei loro interessi in tutte le sedi istituzionali, ma saranno rappresentanti da un Commissario – non eletto ma nominato – che non risponde delle proprie scelte agli elettori ma al Ministro dell’Interno che l’ha nominato.

Con quale mandato un commissario potrà decidere se approvare un no ad esempio un piano urbanistico comunale?

Sulla base di quale autorità rappresentativa potrà stabilire le priorità negli investimenti ad esempio su scuole o su viabilità?

Sulle priorità nella destinazione delle risorse? Sulle scelte in merito al futuro assetto istituzionale nei tavoli di coordinamento?

E’ possibile che non ci renda conto del grave vulnus al sistema democratico ed al diritto di elettorato attivo si determinerebbe in questo modo?

E nella seconda ipotesi – commissariamento di tutte le Province, anche quelle escluse dal riordino – come potrebbe giustificarsi la decadenza anticipata?

3)     Non si può attendere la naturale scadenza della consiliatura provinciale.

Il Ministro, a fronte di questa grave affermazione, dovrebbe spiegare perché non “si può attendere la naturale scadenza della consiliatura provinciale”.

Quale grave rischio si correrebbe?

La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 1° luglio 2002, n. 10, recante “Adempimenti conseguenti alla istituzione di nuove province, norme sugli amministratori locali e modifiche alla legge regionale 2 gennaio 1997, n. 4”, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, nella sentenza n. 48 del 10 febbraio 2003, accogliendo del ricorso del Governo, ha affermato principi chiarissimi al riguardo, su cui si fonda il principio della rappresentanza democratica.

Nella sentenza si legge:

“Tra i principi che si ricavano dalla stessa Costituzione vi è certamente quello per cui la durata in carica degli organi elettivi locali, fissata dalla legge, non è liberamente disponibile nei casi concreti.

Vi è un diritto degli enti elettivi e dei loro rappresentanti eletti al compimento del mandato conferito nelle elezioni, come aspetto essenziale della stessa struttura rappresentativa degli enti, che coinvolge anche i rispettivi corpi elettorali.

Un’abbreviazione di tale mandato può bensì verificarsi, nei casi previsti dalla legge, per l’impossibilità di funzionamento degli organi o per il venir meno dei presupposti di “governabilità” che la legge stabilisce (cfr. ad es. gli artt. 53 e 141, comma 1, lettere b e c, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), ovvero in ipotesi di gravi violazioni o di gravi situazioni di pericolo per la sicurezza pubblica che la legge sanzioni con lo scioglimento delle assemblee (cfr. ad es. l’art. 141, comma 1, lettera a, e l’art. 143 del citato testo unico).

Tuttavia le ipotesi eccezionali di abbreviazione del mandato elettivo debbono essere preventivamente stabilite in via generale dal legislatore.

Tra di esse non è escluso che possa ricorrere anche il sopravvenire di modifiche territoriali che incidano significativamente sulla componente personale dell’ente, su cui si basa l’elezione: come, ad esempio, prevede per il caso degli organi comunali l’art. 8, quarto comma, lettera a, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (non compreso nell’abrogazione espressa disposta dall’art. 274, comma 1, lettera e, del testo unico n. 267 del 2000), secondo cui si procede alla rinnovazione integrale del consiglio comunale quando, per effetto di una modificazione territoriale, si sia verificata una variazione di almeno un quarto della popolazione del Comune.

Ma, ancora una volta, una siffatta ipotesi dovrebbe essere prevista e disciplinata in via generale dalla legge, ovviamente sulla base di presupposti non irragionevoli.

In ogni caso, non può essere una legge provvedimento, disancorata da presupposti prestabiliti in via legislativa, a disporre della durata degli organi eletti.

Proprio questa, invece, è la portata della norma qui impugnata. Essa, nel prevedere che si proceda all’elezione degli organi delle nuove Province, stabilisce altresì che decadano di diritto quelli delle Province preesistenti, nel logico presupposto che non possa darsi una doppia contemporanea rappresentanza, nell’ambito di organi elettivi preesistenti e di organi di nuova elezione, delle popolazioni dei territori oggetto della variazione territoriale.

Tuttavia, tale previsione di abbreviazione del mandato degli organi delle Province preesistenti (eletti solo tre anni fa) non trova supporto in alcuna disciplina a carattere generale che la contempli e ne precisi i presupposti.

Ora, nella legislazione statale sulle Province l’ipotesi di una abbreviazione del mandato degli organi provinciali a seguito di variazioni territoriali non è contemplata (l’art. 8, quarto comma, lettera a, del d.P.R. n. 570 del 1960 si riferisce infatti ai soli consigli comunali): gli unici casi di scioglimento anticipato sono quelli previsti dai citati articoli 53, 141 e 143 del testo unico approvato con il d.lgs. n. 267 del 2000.

Tant’è che in tutti i provvedimenti legislativi con cui sono state istituite nuove Province fuori del territorio delle Regioni speciali, e in particolare in occasione della istituzione di otto nuove Province attuata ai sensi dell’art. 63 della legge 8 giugno 1990, n. 142, si è invariabilmente previsto che l’elezione dei nuovi consigli avesse luogo nel successivo turno generale delle consultazioni amministrative (pur mancando, all’epoca, ancora un triennio a tale data), cioè alla scadenza naturale dei consigli preesistenti, salva l’ipotesi di scioglimento anticipato di questi ultimi per altra causa (cfr. l’art. 3, comma 2, dei decreti legislativi 6 marzo 1992, nn. 248, 249, 250, 251, 252, 253, 254, e del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 277).

La norma impugnata, intervenendo solo sull’elezione, in questa unica occasione, degli organi delle nuove Province e di quelle preesistenti – dunque con la tecnica della legge provvedimento -, dispone invece che tale elezione avvenga anticipando “di diritto” il termine del mandato degli organi già eletti: con ciò ponendosi in contraddizione con i principi che si sono sopra delineati circa le garanzie costituzionali del mandato degli organi elettivi locali”.

Non credo sia necessario aggiungere altre considerazioni rispetto all’inequivocabile motivazione della Corte Costituzionale.

Il rispetto dei principi costituzionali è un dovere per tutti.

Nelle recenti sentenze n. 148/2012, depositata il 7 giugno 2012, e n. 151/2012, depositata il 14 giugno 2012, la Corte Costituzionale ha fissato un monito inequivocabile: “il principio salus rei publicae suprema lex esto non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione. Lo Stato, pertanto, deve affrontare l’emergenza finanziaria predisponendo rimedi che siano consentiti dall’ordinamento costituzionale”.

VALUTAZIONI CONCLUSIVE

Sig. Ministro, il nostro ordinamento non si rinnova con proclami, atti di forza e violazione dei principi costituzionali.

E’ necessario un percorso di riforme condivise, non conflittuali, che riportino fiducia nelle Istituzioni.

Né si può pensare di cogliere la triste e deprecabile occasione fornita dai recenti scandali per accelerare riforme che – come prefigurate – non produrranno alcun beneficio.

Da tempo, da più parti, si chiede fortemente – purtroppo inascoltati – di avviare una riforma organica complessiva della Pubblica Amministrazione partendo dalle funzioni.

Bisogna innanzitutto delimitare gli spazi d’azione della Pubblica Amministrazione, semplificare e disboscare tutti quegli ambiti di intervento nei quali non ha senso né utilità l’intervento pubblico come oggi esistente, che può rappresentare soltanto un appesantimento di procedure e costi senza benefici.

Quindi va individuato l’ambito territoriale ottimale e il livello di governo migliore per l’esercizio delle funzioni, individuando con chiarezza ed univocità chi fa cosa, per chiarezza, semplificazione ed individuazione certa delle responsabilità.

Un adeguato ed efficace sistema di controlli garantisce la correttezza della gestione.

Chi immagina di rispondere alla pressante richiesta di pulizia che proviene dall’opinione pubblica ipotizzando soppressioni di livelli essenziali di governo non fa il bene delle Istituzioni.

Immaginare che con un decreto legge si possa sancire la decadenza anticipata di organi democraticamente eletti, non come misura sanzionatoria, ma semplicemente per scelta del Governo in nome di una riforma sulla quale pendono svariati ed autorevoli dubbi sulla legittimità costituzionale nonché sui reali benefici, è inaccettabile.

Costituirebbe un precedente che può pregiudicare l’assetto stesso del sistema costituzionale.

Se si ritenesse legittimo, addirittura con procedura d’urgenza, sancire la decadenza di organi rappresentativi della collettività quali oggi sono i Consigli Provinciali, cosa vieterebbe domani di disporre la stessa misura per i Consiglio Comunali o Regionali.

Se l’emergenza economica può giustificare surrettizie riforme costituzionali, introdotte con decreti legge, semplicemente sottoposti alla ratifica del Parlamento, anche ponendo la questione di fiducia, non vi è chi non veda in questo una palese violazione dei principi su cui si fonda il nostro ordinamento.

Le sentenze della Corte Costituzionale prima richiamate sono illuminanti al riguardo.

E’ necessario un processo di riforma, indubbiamente. Ma tale processo, che deve condurre a rinnovare il patto sociale sancito nella Costituzione, non può che avvenire nel rispetto delle procedure e delle garanzie contenute nella Carta fondamentale.

E questo e tanto più essenziale proprio in una fase storica in cui le forze politiche rappresentate in Parlamento soffrono, come forse mai in precedenza, un’evidente difetto di legittimazione e di rappresentatività, e quando viviamo l’ “anomalia” del Governo tecnico.

La difesa delle Istituzioni e dei principi costituzionali, oggi più che mai, è un’urgente necessità e un dovere per tutti.

Carlo Rapicavoli

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